Interaction design: il volto “umano” dell’A.I. secondo Ultravioletto
Abbiamo incontrato il fondatore del collettivo che ha realizzato l’installazione Neural Mirror a Spoleto, trasformando i visitatori in proiezioni digitali. A cavallo tra intelligenza artificiale, arte e design (ops, progettazione dell’interazione)
Al Festival dei 2mondi di Spoleto (30 giugno – 14 luglio) la Fondazione Carla Fendi ha promosso il l’installazione Neural Mirror, un’opera di interaction design ovvero l’attività di progettazione dell’interazione che avviene tra esseri umani e sistemi meccanici e informatici. Una volta entrato, il visitatore viene scansionato e la sua figura viene letta attraverso un algoritmo di riconoscimento facciale che la trasforma in una nuvola di punti. Si tratta di uno “specchio” neurale, in grado di riflettere il lato più intimo e indecifrabile dell’identità umana, di dare corpo alle emozioni e sensazioni e rendere visibile gli stati d’animo, creando un alter ego virtuale, digitale del nostro vissuto interiore. L’esperimento “interattivo” che consente di varcare territori al confine fra design, arte e sperimentazione tecnologica è stato curato dallo studio di interaction design Ultravioletto (Ultraviolet.to). Parola a Bruno Capezzuoli, fondatore del collettivo romano insieme a Tito Cetroni, Giulio Pernice, Francesco Bruno Viteri e Massimo Zomparelli.
Raccontaci della vostra installazione a Spoleto.
Ci siamo immedesimati nelle possibilità dell’intelligenza, lavorando su come noi umani possiamo interpretare sia quella umana che quella artificiale. Abbiamo pensato all’attività svolta dai neuroni specchio, che ci portano a sintonizzarci con i comportamenti e le emozioni altrui. È così che da bambini apprendiamo l’empatia, riconosciamo i modi di agire degli altri e li facciamo nostri, replicandoli. Quindi abbiamo iniziato a pensare al riflesso e alla percezione del sé. L’intelligenza artificiale avrebbe potuto avere proprio questo fine ultimo: creare empatia. La nostra riflessione costituisce una presa di posizione nei confronti dell’utilizzo che i colossi informatici fanno dei big data, con l’obiettivo di appropriarsi di informazioni sulle persone. Noi di questi dati abbiamo fatto, invece, un’interpretazione artistica. In Neural Mirror la memoria dell’intelligenza artificiale viene trascritta su carta da delle macchine. Plotter alti 4 metri e mezzo che accumulano dati relativi al genere sessuale, all’età, alle emozioni, come fossero amanuensi moderni.
Com’è nata la collaborazione con la Fondazione Carla Fendi?
Un incontro fortuito, ci ha presentati il regista Gabriele Gianni, con cui la Fondazione aveva già lavorato in passato. Ci hanno chiesto di affrontare il tema dell’intelligenza artificiale e della robotica. Da un dialogo serrato con loro è emersa l’idea di un’installazione artistica, che secondo noi è il medium più indicato per trattare questo tema.
Come nell’ex Chiesa della Manna D’Oro a Spoleto, avete realizzato diversi altri interventi in luoghi romani dal grande valore storico e artistico: palazzo Altemps, il Tempio di Adriano, Villa Torlonia. Qual è per voi l’elemento di maggior interesse nell’agire in uno spazio che contiene già in sé molti significati?
Siamo nati e cresciuti a Roma e siamo completamente immersi in questo contesto dalla forte connotazione storica. Forse la cosa che riconosciamo più nostra è la stratificazione di segni e di espressioni, un esempio di inclusione piuttosto che di antitesi. Queste situazioni sono per noi opportunità di confronto fra spazio preesistente e intervento attuale, anch’esso complesso ma di una complessità contemporanea, così come è successo nel cortile di Palazzo Altemps dove abbiamo creato un intervento con 400 laser.
Dagli anni ‘80 si parla di interaction design, ma solo negli ultimi anni – con l’intervento sempre più massiccio di dispositivi artificiali nella vita emotiva dell’uomo e nell’ambiente – il tema è diventato oggetto di riflessione con implicazioni etiche. Cos’è oggi l’interaction design?
Iniziamo a eliminare la parola design, adesso sembra assumere il significato di ornamento e a noi gli orpelli non piacciono. Forse sarebbe meglio parlare di “progettazione dell’interazione”, cioè di come semplificare i processi e gli strumenti. Gli ambiti sono davvero sterminati dal momento che questi processi intervengono nelle relazioni, fra uomo e uomo o fra uomo e interfaccia. Quando parliamo di interfaccia intendiamo qualsiasi tipo dispositivo artificiale, dal più complesso al più semplice, come, per esempio, la maniglia di un negozio. Quante volte ci siamo trovati davanti ad una porta e abbiamo fatto fatica a capire se dovevamo spingerla o tirarla per uscire? Oppure si tratta di riprogettare il processo che porta a fare la fila alla posta o l’interazione con il proprio cellulare. Le applicazioni sono innumerevoli.
Come si diventa interaction designer? Ci sono dei percorsi formativi specifici? Quali sono le competenze specifiche che bisogna acquisire?
Quello che abbiamo fatto noi è un percorso lungo che ci ha visto sperimentare campi diversi, inoltre proveniamo da percorsi formativi differenti fra loro: dal web design e l’architettura alla sperimentazione video e all’art direction in comunicazione pubblicitaria. Una stratificazione di competenze ed esperienze che ci è molto utile per avere un approccio ibrido e diversificato. Oggi le possibilità formative nel campo dell’interaction design si sono molto parcellizzate e settorializzate, tanto che risulta impossibile comprenderle tutte in un solo corso di studi. Rispetto a dieci anni fa quando il percorso iniziava tradizionalmente con la facoltà di informatica o di comunicazione c’è una proposta molto più articolata.
Quale tipo di scenario volete realizzare con le installazioni artistiche: stimolare una riflessione, informare, intrattenere, emozionare?
Non abbiamo la pretesa di suscitare emozioni o di istruire, ci piace e ci diverte fare quello che facciamo. Il campo artistico è il nostro, chiamiamolo così, laboratorio di ricerca e sviluppo. I nostri progetti sono un terreno di sperimentazione aperto alle esperienze che i visitatori vivono in esse. Non partiamo da un’idea precostituita di cosa deve succedere o di come le persone devono sentirsi, al contrario siamo pronti a recepire quell’interazione in qualsiasi forma e modalità avvenga, anche se sentiamo una forte responsabilità nel coinvolgimento che inneschiamo.
– Isabella Clara Sciacca
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