Sul confine tra realtà e finzione. Intervista all’artista Amalia Ulman
Amalia Ulman è un'artista spagnola che vive negli Stati Uniti. La sua pratica si muove con scioltezza tra performance, fotografia, scrittura, film e social media. Questa estate è stata in residenza a Venezia nel contesto del progetto “AltroVE” di Cescot Veneto. Ecco che cosa ci ha raccontato.
Hai partecipato a una residenza d’artista questa estate a Venezia nell’ambito di AltroVE, uno dei quattordici progetti finanziati dalla Regione Veneto nell’ambito della DGR 718/2018 (Inn Veneto Cervelli che rientrano per il Veneto del futuro). Puoi raccontarci su cosa hai lavorato?
Ho usato la residenza per condurre un workshop intitolato New Methods, che è la versione 2.0 delle tradizionali tecniche di recitazione basate su un metodo. I metodi di recitazione prevedono che gli attori si preparino per il ruolo immergendosi il più possibile nelle condizioni del proprio personaggio. Ed è qui che la mia idea entra in gioco: non è possibile creare un personaggio contemporaneo a tutto tondo senza tenere conto di Internet, di tutto il tempo che trascorriamo online e di come questo influenzi la nostra psiche.
In che modo si svilupperà questa idea in futuro?
Farò un’altra serie di workshop e un’installazione interattiva che verrà esposta da TANK, a Shangai, nella primavera del 2020.
Era la tua prima volta a Venezia? Che effetto ti ha fatto la città?
Sì, era la prima volta che visitavo Venezia. Sono cresciuta in Europa, e ora che vivo negli Stati Uniti, ogni volta che torno ‒ non solo in Spagna, ma in qualsiasi luogo europeo ‒ mi sento molto a casa. Venezia è una bella città e mi piaceva molto leggere sul vaporetto di sera. Sono molto grata del fatto di aver potuto godere di tanti bei tramonti estivi sul Canal Grande.
La location ha influenzato in qualche modo il workshop?
Sì, la città mi ha ispirata mentre lavoravo al workshop… Venezia è il luogo della Commedia dell’Arte e ho anche trascorso molte ore nella Biblioteca di Studi Teatrali di Casa Goldoni.
Hai spesso usato i social media come strumento per riflettere sul concetto di identità, incorporando l’uso di piattaforme come Instagram nella tua pratica performativa. Qual è la tua personale relazione con i social network? Pensi di usarli ancora in futuro?
Li ho usati soltanto due volte. Il mio lavoro come artista consiste nello sfumare i confini tra realtà e finzione. Ho fatto delle performance online che si estendono anche su media tradizionali, video saggi e conferenze universitarie che mettono insieme il linguaggio scientifico con dati surreali. E ho fatto la modella indossando sia marchi reali che bootleg. Quello che cerco sempre di fare è smontare l’autorità delle forme narrative tradizionali. Il mio lavoro consiste nel costruire nuove narrazioni ibride che sono più vicine al nostro modo contemporaneo di concepire le storie. Non ho un interesse particolare per i social media, ma sono interessata ai media in generale, dai quotidiani ai film di propaganda.
Sei ispirata dalla storia della performance art? C’è qualche artista del passato con cui senti un’affinità particolare?
Non ho mai guardato alla performance art perché nel mio caso si tratta di qualcosa che è successo in maniera intuitiva. Ma sicuramente traggo ispirazione dai film e dai libri. Amo Robert Walser, Fischli e Weiss, William Carlos Williams, Tsai Ming-Liang…
Ho letto in un’intervista che all’inizio della tua carriera sei stata influenzata dalla net art. Quale aspetto della net art ti interessa in particolare? C’è un progetto che preferisci?
Mi piace ancora molto la net art. Molti dei miei lavori sono performativi ma allo stesso tempo vivono online, quindi in un certo senso sono Internet art. Amo molto progetti ormai classici come Mouchette di Martine Neddam, My Boyfriend Came Back From The War di Olia Lialina e No Fun di Eva e Franco Mattes.
Penso che il mio interesse sia una questione di classe; la net art è l’unica cosa che puoi fare per conto tuo se hai soltanto un computer e una connessione Internet, le sue radici in questo senso sono egualitarie. È lo stesso motivo per cui mi piacciono la Nouvelle Vague, l’Arte Povera e il Dada.
C’è stato un momento nella tua vita in cui hai realizzato che volevi diventare un’artista? O è qualcosa che è successo spontaneamente?
È l’unica cosa che abbia mai fatto, fin da quando ero una bambina, anche se non in maniera tradizionale… Non disegnavo, dipingevo o ballavo, ma ho inventato dei magazine e più tardi ho iniziato a scattare fotografie. È stato quando avevo vent’anni circa, e frequentavo già la scuola d’arte, che mi capitò di aiutare la mamma del mio ragazzo a compilare dei documenti delle tasse. Lei era una pittrice e di fronte al governo figurava semplicemente come “artista”. Non avevo mai pensato che fosse possibile. E anch’io volevo esserlo.
Nel tuo lavoro hai usato la performance, la fotografa, il web, i film e anche la scrittura. Come scegli il medium da utilizzare? C’è una forma espressiva con cui ti senti più a tuo agio?
No, spesso mi capita di avere una visione, molto chiara. Questa idea mi ossessiona finché non la realizzo. Poi passo alla “visione” successiva. Per cui non scelgo il medium prima di iniziare; a volte il lavoro richiede la scrittura, a volte il video, a volte degli oggetti.
A causa della mia disabilità, mi sono discostata dalle installazioni e sempre più spesso lavoro con il video. Dover essere presente durante il montaggio dell’opera è qualcosa che pesa molto sul mio stato di salute, mentre il video implica un processo più diretto. Più l’età avanza, più divento realistica sulle limitazioni del mio corpo.
A cosa stai lavorando in questo momento? Ci puoi dare qualche anticipazione sui tuoi progetti futuri?
Sto completando il mio primo lungometraggio. El Planeta è una dark comedy su cui sto lavorando da due anni. Sono entusiasta di questo progetto perché è solo la seconda volta che lavoro con la mia lingua di origine e potrò contare sul migliore team e sulla migliore attrice: mia madre. Sono davvero emozionata.
Di cosa parla il film?
La storia è liberamente ispirata a una coppia di criminali composta da madre e figlia che vengono dal luogo in cui sono nata, Gijón, una cittadina proletaria nel nord della Spagna. “Sullo scenario devastato dell’Europa post-crisi, madre e figlia bluffano e truffano per mantenere lo stile di vita che pensano di meritare, costruendo il loro legame sulla comune tragedia e su uno sfratto imminente”.
‒ Valentina Tanni
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