I videogiochi di We Are Müesli, tra storia e cultura

Intervista a Claudia Molinari e Matteo Pozzi, membri dello studio We Are Müesli, specializzati nella realizzazione di videogiochi – ma anche escape room ‒ che guardano alla letteratura, alla storia e alla cultura in generale. Senza dimenticare il divertimento.

We Are Müesli è lo studio composto da Claudia Molinari e Matteo Pozzi e da anni crea videogiochi e giochi narrativi, spesso realizzati con il software gratuito Ren’Py e appartenenti al genere chiamato “visual novel”, racconti interattivi illustrati. La loro prima opera in questo ambito è stata Cave! Cave! Deus Videt, realizzata per il bando Bosch Art Game della Jheronimus Bosch 500 Foundation e ispirata all’arte di Hieronymus Bosch. Molinari e Pozzi hanno poi proseguito con lavori come Venti mesi, docu-gioco sull’ultimo periodo della Resistenza milanese, e The Great Palermo, ballata interattiva sul cibo e le tradizioni di Palermo (questi tre videogiochi sono disponibili gratuitamente online).
Ora We Are Müesli lavora a Dewey Rooms, una serie di progetti ispirati alle meccaniche degli escape game, giochi cooperativi sulla risoluzione di enigmi. Dopo la campagna di crowdfunding di Colpo di Stato, un escape game cartaceo in cui chi gioca investiga sul golpe Borghese (un tentativo di colpo di Stato realmente avvenuto in Italia nel 1970), il secondo progetto di Dewey Rooms è l’escape room Wer Ist Wer, un’esperienza immersiva sui temi del controllo, della sorveglianza e della conformità realizzata per i trent’anni dalla caduta del Muro di Berlino. Si può giocare con Wer Ist Wer dal 10 novembre all’8 dicembre 2019 al Polo del ‘900 di Torino e per l’occasione abbiamo ripercorso con i due autori la loro carriera.

Claudia Molinari e Matteo Pozzi (We Are Müesli )

Claudia Molinari e Matteo Pozzi (We Are Müesli )

L’INTERVISTA

Quale è la vostra formazione?
Matteo Pozzi: La mia formazione è nell’ambito della scrittura, prima giornalistica: ho studiato scienze della comunicazione e ho preso l’indirizzo di giornalismo, professione che non ho mai svolto davvero se non prima di finire l’università. È proprio lì che arrivano i videogiochi: quando studiavo (a cavallo del 2000) c‘erano ancora diverse riviste e facevo recensioni per il gruppo che pubblicava K. Il primo lavoro vero e proprio è stato in TV come redattore di Random, un programma per ragazzi del pomeriggio di Raidue prodotto da Disney, dove tenevo una rubrica di videogiochi, una classifica. Uno dei due autori di quel programma mi propose di iniziare a scrivere sceneggiature per altri programmi Disney e ho iniziato così a fare l’autore per alcune sitcom di Disney Channel. Poi via via, per diversificare un po’, anche perché Disney Channel aveva iniziato a produrre sempre meno in Italia e a importare dal Sud America, ho iniziato a dover fare anche altri lavori, a fare il copywriter. Così sono finito in un’agenzia a Milano dove nel 2009 ho conosciuto Claudia.
Claudia Molinari: La mia formazione è meno lineare. Intorno ai 15 anni mi trasferisco In Inghilterra a vivere con parte della mia famiglia e finisco in un college a Cambridge dove le mie materie di diploma erano cose tipo antropologia, sociologia, performing arts e teatro. Un liceo scientifico ma con queste materie in più. Mi diplomo con quello che si chiama “International Baccalaureate” e mi sposto a Brighton dove faccio un triennio in Information and media sciences. Una sorta di equivalente di Scienze della comunicazione, se non fosse che in Inghilterra dividono scienze della comunicazione da scienze dell’informazione. Dopo questo percorso rientro brevemente in Italia dove faccio un’esperienza nella moda e lavoro a Montecarlo. Successivamente vinco quello che ai tempi era un master con un fondo sociale europeo e faccio un corso come concept designer per l’immagine del marchio nella moda. Ho sempre disegnato, sono sempre stata un’amante dei fumetti e dei manga e dopo questa esperienza ho fatto un summer camp al Central Saint Martins College of Art and Design di Londra come concept designer e poi ricomincio da capo e faccio un triennio come graphic designer e art director. Inizio a lavorare nella comunicazione pura in agenzie di packaging, di grafica, e nel 2009 incontro Matteo in questa agenzia pubblicitaria.
Matteo Pozzi: Ci siamo conosciuti perché eravamo la classica coppia creativa da agenzia di comunicazione: l’art director è Claudia e io il copywriter, la matita e la penna. Un’accoppiata che per certi versi ci siamo portati dietro fino a oggi.
Claudia Molinari: Iniziamo a funzionare sempre di più come coppia creativa finché nel 2011 nasce We Are Müesli, con dei progetti che noi chiamavamo di “storytelling non convenzionale”.

We Are Müesli, Venti mesi

We Are Müesli, Venti mesi

Quali sono state le vostre influenze?
Claudia Molinari: I miei punti di riferimento sono Chagall, Basquiat, Depero, Armando Testa per certi tipi di composizione… Mi piace moltissimo il Memphis come periodo grafico (non come periodo di design del prodotto). Venti mesi è ispirato sia a Picasso che a Baj. La realtà è che io quando comincio un progetto non voglio influenzarlo con quello che so fare, ma mi metto al suo servizio. Sicuramente ho delle cose che mi caratterizzano ora: non sono una persona che ama le sfumature, per cui non le vedrai mai nelle opere, mi piacciono i colori puri, mi piacciono i pattern. È un po’ questa la mia cifra. E poi mi piace utilizzare anche le texture materiche: la carta, la stampa… Si capisce guardando le mie opere che io arrivo dal mondo della comunicazione e dell’editoria, e non da quello dell’illustrazione.
Matteo Pozzi: Sono sempre stato un lettore abbastanza disordinato. Mi piace scoprire cose che non conosco. Quando frequentavo l’università mi capitava di arrivare a lezione, aprire la porta, dire “no non ce la posso fare” (l’università non è stato proprio un periodo bellissimo), andare invece in centro a Milano. C‘era in via Vittorio Emanuele una libreria con remainder, riedizioni… trovavi di tutto. Non gli ultimi successi ma robe dai manuali di tassidermia a raccolte di poesie da culture teoricamente minoritarie, con quel gusto di frugare tra gli scarti dell’immaginario di successo consolidato. Poi un mio punto fermo è stato Sanguineti, a livello di ricerca sulla parola e sul ritmo e per l’impegno politico. È una lettura che mi ha molto segnato, anche se poi non sta da nessuna parte nel lavoro che faccio adesso.
Claudia Molinari: Te lo dico io che ti impagino: sta nell’utilizzo della punteggiatura.
Matteo Pozzi: Son robe che stanno molto in profondità e non te ne rendi nemmeno conto. A livello di temi e di attitudine poi ci sono nomi più noti, uno è Vonnegut di sicuro perché è uno dei miei scrittori preferiti. Lo citiamo nei corsi di scrittura che facciamo anche per la sua riflessione sul raccontare storie. Calvino è un altro punto di riferimento un po’ per lo stesso motivo e per il gusto del gioco. E poi non posso non citare Pasolini, più il Pasolini “giornalista-saggista”, quello delle Lettere luterane, che Pasolini poeta.
Claudia Molinari: Per la mia parte visionaria il riferimento è sicuramente Alejandro Jodorowsky. Tutto e più di tutto quello che faccio parte sempre da là.
Matteo Pozzi: E poi la cosa in comune è che da piccoli tutti e due avevamo l’enciclopedia I Quindici.

Come siete arrivati al vostro primo videogioco, Cave! Cave! Deus Videt?
Matteo Pozzi: Eravamo a fine 2012 ed erano un paio d’anni avevo scoperto i videogiochi indipendenti e seguivo un po’ di blog a riguardo. Credo di aver scoperto il bando del Bosch Art Game tramite il blog di Brandon Boyer che si chiamava Venus Patrol e ne avevo parlato a Claudia. Bosch era un pittore che ci accomunava, abbiamo visto il trittico del Giudizio Universale durante un viaggio a Vienna. Poi c’erano la curiosità di fare un videogioco su Bosch (tralasciando il fatto che non sapessimo minimamente come fare un videogioco) e l’esigenza di fare cose creative e nostre.
Claudia Molinari: Mentre Matteo già da qualche anno seguiva il mondo del videogioco, la mia unica interazione coi videogiochi sino a quel momento era stato il Commodore 128. Sono l’ultima di cinque figli, guardavo i miei fratelli giocare e dopo il Commodore 128 mio fratello si è appassionato alle avventure punta-e-clicca. Io soffro di motion sickness, non riesco a giocare a giochi 3D. Comunque, ricordo che durante quell’anno in cui abbiamo fatto il prototipo era come se dovessimo farlo punto e basta. Anche se non avevamo tutte le conoscenze, avevamo una grandissima motivazione, non ti so dire da cosa nasceva.
Matteo Pozzi: Con tutto il rispetto per un lavoro dipendente anche in ambito creativo, come può essere quello di un’agenzia di Milano, capita di voler raccontare, esprimersi, cercare vie di fuga personali o indipendenti e di mettere in piedi una roba propria.
Claudia Molinari: Ogni anno capivamo meglio e affinavamo. Lo diciamo anche ai nostri studenti: se vuoi, puoi creare con quello che già hai, non c’è bisogno di avere tutta la conoscenza del mondo per poter fare qualcosa. Noi con un prototipo fatto di notte siamo arrivati all’E3 [la più importante fiera occidentale di videogiochi, N.d.R.].

We Are Müesli, Cave! Cave! Deus Videt

We Are Müesli, Cave! Cave! Deus Videt

Insomma, anche scrittori, grafici, illustratori senza una preparazione specifica possono esprimersi attraverso i videogiochi?
Claudia Molinari: È uno strumento di comunicazione, una delle possibilità.
Matteo Pozzi: Non ho mai capito l’ambizione di voler lavorare nel mondo dei videogiochi per principio ma senza sapere cosa vuoi realmente. Si parla troppo del mezzo in quanto tale, come se esistesse un unico modo di fare videogiochi.

Vi siete quasi sempre concentrati su opere che raccontassero Storia e culture, soprattutto la storia italiana e la cultura italiana. Perché?
Matteo Pozzi: Cerchiamo di includere in un possibile immaginario collettivo storie minori o minoritarie che in qualche modo toccano o incrociano la nostra identità. Venti mesi è la cosa di cui sono più orgoglioso e soddisfatto, anche per essere riuscito a coniugare identità storico-culturale-politica e identità personale e biografica, con più di un riferimento a nostre storie familiari. Prima citavo Vonnegut, che ha scritto diverse liste di consigli per la scrittura di storie e in una versione di queste liste un punto è “scrivi di qualcosa che ti stia a cuore e che pensi debba stare a cuore anche alle altre persone.” I nostri racconti hanno questo in comune: ci stanno a cuore. Ci stava a cuore Bosch e ci stava a cuore la sua pittura, ci sta a cuore il tema della Resistenza, ci siamo innamorati di Palermo…

Come siete arrivati a Dewey Rooms? C’è una continuità con questo percorso, ma anche un salto da digitale ad analogico e un maggiore interesse verso il game design.
Claudia Molinari: Secondo me nei nostri progetti dal 2013 a oggi c’è sempre una ricerca, una sperimentazione in questo senso. Finché abbiamo fatto progetti con Ren’Py o narrativi abbiamo cercato di trovare il modo di essere originali. Ricordo la volontà di Matteo di giocare con i menù a scelta, di trovare una nota non convenzionale anche in un mondo prettamente narrativo.
Matteo Pozzi: Alla meccanica che sembrerebbe la più convenzionale possibile, la scelta multipla della visual novel, abbiamo cercato soprattutto in Venti mesi di provare tutti le possibili varianti: scelte a tempo, troppe scelte, scelte uniche… Abbiamo anche lì esplorato tutte le possibili variazioni su una meccanica sola.
Claudia Molinari: La svolta è stato un po’ l’anno scorso, quando a Francoforte alla Buchmesse abbiamo tenuto un talk sull’ibridazione e sulla relazione tra digitale e fisico. Ci siamo chiesti come noi avessimo esplorato questo concetto e ci siamo resi conto che nella nostra digitalità abbiamo sempre cercato di mettere una qualche fisicità, e piano piano abbiamo capito che questo confine tra analogico e digitale è puramente nella nostra testa. È chiaro che un gioco analogico lo tocchi, ma la sua progettazione non è differente da tutto quello che abbiamo fatto. Colpo di Stato nasce anche dalla voglia di tornare a toccare la carta: leggo della fine dei giornali e della carta, quindi facciamo una provocazione e creiamo un gioco analogico che ha un design visivo ispirato proprio alla carta stampata. Wer Ist Wer è, secondo me, la produzione più completa e più complessa su cui abbiamo mai lavorato, perché ci abbiamo mischiato dieci anni di nostri lavori. Wer Ist Wer mi riporta al teatro e alle performing arts che avevo studiato, al concetto della fisicità, al product design, all’allestimento, al concept design, alla scrittura…
Matteo Pozzi: Una cosa a cui dobbiamo questa volontà di evoluzione è una certa comunità che c’è intorno al videogioco e che abbiamo avuto la fortuna di frequentare, cioè il circuito di festival indipendenti con un occhio particolare all’estero e con un respiro più internazionale. Per me è stata una fortuna: siamo entrati in contatto con idee anche molto diverse dalla nostra e non limitate al solo aspetto narrativo. E se hai occasione di vedere progetti e game design di un certo tipo, poi hai voglia di sperimentare con cose con cui non sei del tutto a tuo agio. Alla fine non eravamo a nostro agio neanche all’inizio. Quella forse è una cosa ricorrente: il non sentirci a nostro agio mai, e una volta che iniziamo ad ambientarci iniziamo a fare una cosa nuova…
Claudia Molinari: Ci mettiamo sempre i bastoni tra le ruote.
Matteo Pozzi: L’autosabotaggio come metodo creativo.

‒ Matteo Lupetti

https://www.wearemuesli.it/

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Matteo Lupetti

Matteo Lupetti

Diplomato in Fumetto alla Scuola Internazionale di Comics di Firenze nel 2010, gestisce il collettivo di fumettisti indipendenti Gravure e scrive di videogiochi per varie testate italiane ed estere. È diplomato in sommelerie all’interno dell’associazione FISAR ed è direttore artistico…

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