Internet e gli artisti. L’opinione di 5 esperti
L’uso artistico delle reti telematiche ha una lunga storia, che ha avuto il suo picco con il movimento della Net Art nella seconda metà degli Anni Novanta e primi Anni Zero. Esaurita la spinta avanguardistica, e dissolti movimenti e correnti (compreso il controverso Post-Internet), cosa resta oggi? In che modo oggi gli artisti usano Internet nelle loro opere?
DOMENICO QUARANTA ‒ CRITICO D’ARTE E CURATORE, DOCENTE ACCADEMIA DI BELLE ARTI A CARRARA
Da un lato il Post-Internet ha cancellato con un colpo di spugna gli ultimi residui della specificità mediale, facilitando l’emergere di artisti che portano i linguaggi e le culture digitali davanti a un pubblico più ampio, trasversale e globale. Per molti aspetti positivo, questo processo ha però danneggiato la riconoscibilità del fenomeno e la compattezza della comunità che l’ha fatto fiorire, riconducendola alle dinamiche individualiste del mondo dell’arte.
Tuttavia sono restio a vedere in questa transizione un passaggio senza ritorno. Le pratiche di networking e la Rete come piattaforma produttiva e distributiva sfidano ancora i formati e le logiche del mondo dell’arte; e, nonostante i suoi cambiamenti, la Rete non ha ancora smesso di sorprendere: blockchain, browser alternativi, mesh network, bot e intelligenze artificiali, deep web, residui strutturali della vecchia Internet lasciano aperti degli spazi a un uso dal basso, radicale e corrosivo delle reti.
JOSEPHINE BOSMA ‒ CRITICA D’ARTE E TEORICA SPECIALIZZATA IN NETWORKED ART, AMSTERDAM
L’uso delle reti telematiche da parte degli artisti non ha avuto un picco vent’anni fa; il picco deve ancora venire. Per prepararci al futuro abbiamo bisogno di liberarci dal pensiero avanguardista novecentesco perché troppo incentrato sulla glorificazione dell’artista-genio, che spesso, “accidentalmente”, è anche bianco e maschio. Dovremmo invece ricordare quelli che sono stati gli sviluppi dell’arte dopo il 1960: un allontanamento dall’oggetto, ma anche la nascita di un’idea di arte come azione, come performance e come sistema.
Man mano che le reti crescono, aumentano le scene artistiche locali e proliferano le pratiche meno consapevoli. Sono aumentati gli artisti che producono opere derivative, alcuni dei quali sono stati etichettati come Post-Internet, mentre sono sempre meno quelli in grado di esplorare la tecnologia in modo profondo, materialmente o politicamente. Gli artisti che adottano un atteggiamento “hacker” sono relativamente pochi, ma non meno influenti.
BANI BRUSADIN ‒ TEORICO E CURATORE, CO-DIRETTORE DEL FESTIVAL INFLUENCERS DI BARCELLONA
Una nuova generazione di artisti, perlopiù cresciuta tra la fine dell’era analogica e l’inizio dell’era della quantificazione digitale diffusa, sta trovando modalità inusuali di esplorare il vasto network di infrastrutture che avvolge il pianeta. Non solo le reti di comunicazione, ma tutta l’intricata maglia di sistemi che gestisce ogni singolo aspetto della vita delle persone: dalla logistica globale all’osservazione e alla pianificazione scientifica; dai social media all’attività della polizia. Possiamo chiamarla “l’infrastruttura”.
Non mi riferisco soltanto alle antenne e ai cavi sottomarini. È una costruzione mostruosa e ibrida che include i comportamenti delle persone, le strutture di potere, le risorse naturali e forme di intenzionalità che partono dagli uomini ma la cui portata supera la nostra immaginazione. Tra l‘infra e la struttura gli artisti sono in grado di scovare, ancora una volta, grandiosi sogni di controllo e stupidi errori, solo che stavolta sono veloci, interconnessi e moltiplicati esponenzialmente.
INKE ARNS ‒ TEORICA E CURATRICE, DIRETTRICE HARTWARE MEDIENKUNSTVEREIN A DORTMUND
Il focus è sicuramente cambiato. Si è passati dall’indagine sulla pura possibilità della comunicazione (penso a un progetto come Hole in Space di Kit Galloway e Sherrie Rabinowitz, 1980) alla riflessione sulle conseguenze politiche e sociali degli strumenti, che sono pesantemente influenzati dalle corporation. Già nel 2011, Alessandro Ludovico e Paolo Cirio usavano i software di riconoscimento facciale nel progetto Face to Facebook, trasformando il famoso social network in un sito di incontri. Nel 2014 Constant Dullaart (High Retention, Slow Delivery!) creava schiere di falsi follower su Instagram, quando nessuno ancora pensava che una pratica del genere si sarebbe trasformata in un’arma politica.
Gli artisti oggi si confrontano con movimenti come l’alt-right, con le loro raffinate strategie di trolling, oppure con gli algoritmi di YouTube, capaci di far finire le persone dritte nei meandri della nuova destra. Altri si interessano di archeologia dei media, come Olia Lialina e Dragan Espenschied, che riportano alla luce i resti dei primi siti personali su Geocities. Tutto questo la dice lunga sulla strada che abbiamo fatto.
MARIALAURA GHIDINI ‒ CRITICA D’ARTE E CURATRICE, DOCENTE SRISHTI SCHOOL OF ART, DESIGN AND TECHNOLOGY A BANGALORE
Qualche mese fa ho chiesto all’artista Martine Neddam che differenza ci fosse tra il lavorare con Internet negli Anni Novanta e oggi. “Prima era utopia, ora è realismo”, mi ha risposto. Questo realismo è evidente nel modo in cui molti artisti contemporanei approcciano il mezzo, considerandolo un’infrastruttura che ha ripercussioni su tutte le sfere della quotidianità, dall’organizzazione del lavoro fino al monitoraggio personale.
Da questa attitudine nascono ricerche interessanti che sono una risposta alla “piattaformizzazione” del web. Progetti che, ad esempio, fanno un uso “improprio” della filosofia e dei servizi digitali della sharing economy. Penso a lavori come Technologies of Care di Elisa Giardina Papa, oppure Karen di Blast Theory, ma anche alla mostra audio out-of-line di Sonam Chaturvedi e Suvani Suri.
‒ Valentina Tanni
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #52
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