Vuk Ćosić è un artista sloveno ed è considerato uno dei padri della Net Art. Laureato in archeologia e appassionato di avanguardie storiche, ha animato le conversazioni, le mailing list e i meeting del movimento negli Anni Novanta e Zero, oltre a produrre molte opere oggi storiche come Documenta Done, History of Art for the Airports e ASCII History of Moving Art.
Sei considerato un pioniere della net art, l’ultimo vero movimento d’avanguardia che abbiamo avuto (nel senso storico del termine). Quale eredità pensi abbia lasciato?
Devo ammettere che, a differenza della maggior parte dei miei colleghi, io avevo sul serio una visione avanguardistica delle nostre attività. Hai colto nel segno. Credo che il nostro compito fosse quello di potenziare e trasferire il virus della libertà. Un certo insieme di idee e comportamenti radicali aveva bisogno di essere coltivato; dovevamo provare che fosse (ancora) possibile in un’epoca così fortemente digitalizzata come la nostra. Non accettare lo status quo, costituire sacche di resistenza, mostrare che tutto è possibile se hai coraggio.
In una famosa intervista datata 1997, hai ironicamente dichiarato che “l’arte era solo un sostituto di Internet”. In un certo senso, quella frase era profetica: la rete ha facilitato la produzione e la diffusione di moltissimi contenuti artistici, e ha anche materializzato, con la sua sola esistenza (in quanto mezzo di comunicazione collaborativo, orizzontale e in real time), alcuni dei sogni delle avanguardie storiche. Quanto potenziale artistico vedi oggi in Internet, dopo vent’anni?
Quella frase è stata pronunciata in un determinato contesto e rappresenta una versione distillata e ipercompressa di una semplice diagnosi: il sogno di una generazione di artisti di avanguardia in genere diventa un normale strumento per la generazione successiva. Forse si tratta di un’affermazione un pelo superficiale oggi che abbiamo degli interi corsi universitari di archeologia dei media, ma a quei tempi fu in grado di colpire una generazione.
Utilizzando la stessa lente, ossia pensando al sogno di qualche immaginaria avanguardia futura, oggi non considererei Internet in sè come terreno promettente, ma lo inserirei in un contesto più ampio, puntando su cose vecchio stampo tipo cosa voglia dire stabilire relazioni significative con gli altri, o cosa possa essere artisticamente rilevante in un’epoca in cui siamo costretti a chiederci se il pianeta sia ancora abitabile. Non sto dicendo che tutte le opere che usano Internet (oppure l’intelligenza artificiale) siano inutili, ma non è possibile restare chiusi nel proprio contesto e pensare di essere rilevanti per l’umanità.
Quando hai iniziato a lavorare online, Internet era percepito come uno spazio di libertà, uno strumento in grado di potenziare l’espressione personale e liberare gli artisti dalle costrizioni del sistema dell’arte. Oggi la situazione è totalmente diversa e l’atmosfera generale è più pessimistica. In che modo pensi che un artista possa reagire a questa situazione?
La net.art (si scrive con il punto!) era in gran parte basata su questa idea di indipendenza dagli intermediari del mondo dell’arte. Ci abbiamo provato, ma questo non ha allontanato i musei e le biennali dal mercato. L’ingenuità della nostra posizione ha molti risvolti che non erano evidenti al tempo ma che sono ovvi oggi: prima di tutto, l’idea che se sei online sei in uno spazio libero era una cazzata imperdonabile (Zuckerberg, ad esempio, è proprietario di qualsiasi cosa pubblichiamo sul suo sito blu). L’altra cosa riguarda l’idea che l’entusiasmo bruciante dei primi creatori avrebbe trovato la sua controparte in un pubblico altrettanto curioso. Poi c’è anche la faccenda delle aspettative che teorici e giornalisti riversano sugli artisti e sulla loro capacità di aggiustare le cose, per poi tormentarli se questo non succede. Potrei andare avanti all’infinito.
Un altro aspetto da considerare riguarda il fatto che oggi esiste, si, un mercato collezionistico per la net art, ma è una faccenda controversa perché il campo delle interpretazioni è talmente vasto da far passare qualsiasi cosa. Basta avere un buon ufficio stampa. È una cosa che succede per tutta l’arte contemporanea, ma nel caso della net art è un po’ peggio. Lo spiega molto bene l’articolo di Morgan Quaintance Net art: Beyond Description uscito di recente su Art Monthly. Quaintance mette l’accento sulla mancanza di un’elaborazione critica seria sulla net art e di come tutti (anche i musei e le gallerie) si limitino a descrivere i lavori.
Comunque, per rispondere alla tua domanda: l’indipendenza artistica è ancora un ideale molto forte in cui credo. Oltre che un fantastico demone da portare in giro con me quando frequento il mondo dell’arte.
Che genere di arte apprezzi oggi? Ci sono degli artisti giovani che segui e che ti ispirano?
L’unica possibile rilevanza artistica coincide con la rilevanza sociale, e in qualsiasi epoca questo significa prendere una posizione critica. Ho passato con piacere molte ore sul progetto di Trevor Paglen ImageNet Roulette, ad esempio, e penso che sia un ottimo mix: è in grado di influenzare la realtà dei fatti restando comunque molto semplice e comunicabile. Mi piacerebbe che usassi le immagini che ho ottenuto usando il progetto per accompagnare questa intervista. Mi piace anche il fatto che aldilà della dimensione sociale del progetto, c’è anche questa meravigliosa, irrisolvibile questione della paternità delle immagini. Una foto che ritrae me davanti a un frammento del mio lavoro con un intervento di Igor Štromajer fotografato da Evan Roth e che io ho dato deliberatamente in pasto al tool di AI di Trevor Paglen. Chi firma questa immagine e chi si prende i milioni del collezionista?
Gli artisti che mi piacciono sono perlopiù mid-generation: Evan Roth, Aram Bartholl, Constant Dullaart, Paolo Cirio, Cory Arcangel. Ma, aspetta, ho anche un nome più giovane: Joana Moll. Sono un suo grande fan.
In che modo, secondo te, internet può essere ancora usato (e abusato) dagli artisti?
In modo ibrido. Si tratta solo di un livello della realtà. Un lavoro capace di parlare non solo a dei vecchi net.artisti o ai professori delle accademie d’arte dovrebbe affrontare le complessità della vita contemporanea. Il che include i problemi della sorveglianza, della pubblicità e di altre forme di menzogna. Come hanno sostenuto giustamente gli artisti del Post-internet, ma in maniera critica. Voglio sottolineare che il concetto di mis-uso è cruciale. Quando vedo un progetto che usa in maniera imprevista o sbagliata una tecnologia, per me è il primo segno che forse si tratta di un’opera d’arte. Perché accettare le istruzioni del manuale può solo significare che fai il testimonial per l’hardware e il software di altri. Oppure vuol dire che sei dannatamente intelligente e il punto dell’opera è altrove. Ma in generale la regola del misuse funziona.
Su cosa stai lavorando al momento? In che direzione si muove la tua ricerca?
Stavo giusto parlando con Josephine Bosma di una cosa che mi sta tenendo occupato di recente. Vedi, io soffro di una malattia innocua: colleziono file. E sono anche un po’ pirata. Ho tantissimi file conservati su disco e sto cercando il modo di metterli in condivisione. Sono quello che potresti definire un info-prepper. Come in ogni opera d’arte utopica o distopica, sto immaginando uno scenario in cui per qualche ragione non avremo più internet e il mio lavoro sarebbe quello di continuare a mettere in condivisione i file di valore. Come azione preliminare di questa attitudine posiziono dei piccoli hot spot invisibili e site specific che funzionano come rettifiche per i monumenti. Hai presente quelle grandi placche in marmo che contengono un testo lungo più o meno come un tweet? Per me quello è come se fosse un contenuto filtrato e vorrei che vi fosse un bottone con scritto “leggi di più”. Così ho dato questo nome, “Read More” a questo mio progetto “intimo”. Per esempio, per il centenario del Dada, ho fatto questa operazione al Cabaret Voltaire. Chiunque fosse in quello spazio poteva scaricare una vasta collezione di immagini scansionate da giornali e libri sul Dada. A volte lo faccio anche durante i miei talk o in occasione di eventi pubblici. Mi porto un router con dentro qualche gigabyte di libri utili, documenti e altre cose da scaricare.
Ah, un’altra cosa: ho appena pubblicato un libro d’artista. Abbiamo tradotto Aesthetics of AI, l’ultimo saggio di Lev Manovich, in sloveno, e ci ho un po’ giocato. Ogni doppia pagina del libricino ha il testo in chiaro sulla destra mentre sulla sinistra c’è un esperimento di intelligenza artificiale basato sullo stesso testo. Ho organizzato il tutto in una specie di crescendo storico. Molto divertente. Completamente illeggibile, ovviamente, ma divertente.
Molti dei tuoi progetti sono legati a un momento molto specifico di internet e della sua storia. Quale di questi progetti, se ce n’è uno, potrebbe essere rifatto o rimesso in scena oggi?
Ho avuto la grande fortuna di trovarmi al giusto stadio del mio sviluppo creativo, politico e umano. Questo mi ha permesso di avere i giusti “riflessi” riguardo a un settore nascente, e così alcuni dei miei lavori sono diventati iconici, quasi accidentalmente, direi. Voglio dire, ho fatto delle icone. Quindi rifare o rimettere in scena quelle azioni senza il contesto – personale e generale – sarebbe un manierismo inutile. Divertente ma fuori posto. Sarebbe come rimettere in scena una performance dada o un concerto punk. Quindi, per favore, rimettete voi in scena le mie cose. Io mi fingerei strategicamente indifferente, ma sotto sotto mi sentirei super-figo.
– Valentina Tanni
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #52
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