Meme e Internet. Le espressioni dell’odio nell’era 2.0
Quale ruolo giocano i meme nello sviluppo di linguaggi e gruppi che sul web veicolano odio e discriminazione? Una immersione fra le pieghe del web rivela il lato più crudele di uno dei fenomeni digitali della nostra epoca.
L’era del web 2.0 coincide con la smaterializzazione totale degli spazi e degli individui.
La trasposizione della vita e delle comunicazioni lascia i luoghi antropologici, creatori di un sociale organico, per ancorarsi prepotentemente ai non luoghi (Augé 2020), intesi come spazi dell’anonimato frequentati da individui simili ma soli.
La solitudine dovuta alla spersonalizzazione dell’individuo, e la similitudine generata da un senso di protezione da parte di una folla anonima, risultano essere i tratti distintivi della contemporaneità. A tale condizione si accompagna la dematerializzazione del linguaggio, divenuto ora un complesso sistema di sovrascritture, codici e ipertesti del web. Se nella comunicazione analogica si aveva a che fare con un concreto destinatario, con un interlocutore fisico, la comunicazione digitale promuove una forma comunicativa espansionistica, priva di interlocutori personali, di voci, di sguardi e, ancora una volta, depersonalizzata.
I social network, più che promuovere la cultura della discussione, sono governati dall’ira; un’ira che produce collettività, fratellanza ed empatia. Negli Stati Uniti, uno dei primi attacchi orchestrati e indirizzati contro una donna che sosteneva i valori di multiculturalismo e femminismo ebbe come bersaglio Kathy Sierra, una giornalista e blogger esperta di tecnologia. Sierra si fece promotrice di un appello per la moderazione dei commenti scritti dagli utenti online – azione del tutto contraria all’etica hacker volta all’assoluta libertà di Internet e che poi si affermerà come vera e propria norma del web. In massa, autori di commenti sul suo blog iniziarono a molestarla con minacce di stupro e di morte. Vennero pubblicati online il suo indirizzo di casa e dettagli personali sulla sua famiglia, accompagnati da messaggi pieni d’odio e fotomontaggi che la ritraevano con un cappio attorno al collo (Nagle 2018: 27).
L’odio, la violenza e il risentimento sono le monete più commercializzate sul web e spesso si celano dietro dispositivi iconografici apparentemente innocui: i meme. Noi tutti sappiamo riconoscere, o perlomeno distinguere un meme, ma esattamente cos’è? Come e quando è avvenuto il passaggio da dispositivo ironico a principale veicolo d’odio verso l’Altro? E soprattutto: in che modo si è dapprima insinuato nei circuiti della comunicazione politica e successivamente fatto portavoce di una subcultura misogina, razzista, segregazionista e nazionalista bianca?
LA STORIA DEI MEME
Nel 1976 Richard Dawkins scrive Il gene egoista (Lolli 2018: 19) e, fra le sue intenzioni, non figura quella di dare un nome alle immagini buffe che avrebbero spopolato nell’Internet del secolo successivo. Aveva invece un obiettivo quantomeno ugualmente ambizioso: cambiare il soggetto dell’evoluzione darwiniana. In quello che è diventato a suo modo un classico della divulgazione scientifica, il gene va a sostituire la specie come protagonista dell’evoluzione. L’inversione di prospettiva operata da Dawkins si configura nel modo seguente: i geni sono dei replicatori il cui scopo non è altro che replicare se stessi. Per farlo, nel susseguirsi delle ere, hanno costruito veicoli sempre più complessi: virus, piante, animali e, infine, uomini. Tutte queste specie di esseri, sostiene l’autore, non sono altro che macchine di sopravvivenza per geni, che sono i veri egoisti.
L’idea che l’unità di senso minima sia un ente la cui caratteristica fondamentale è replicarsi, sempre uguale ma in complessi sempre diversi, appunto ‘evoluti’, ha affascinato tanto l’autore da estendere la portata di questa teoria dalla biologia alla cultura. Ecco che Dawkins introduce il corrispettivo culturale del gene: il meme. La parola è ispirata alla radice greca mimeme, ‘imitazione’, che lo scienziato accorcia in meme per assonanza col gene.
Il meme non ha nulla di materiale in comune col gene, è un’analogia della sua caratteristica fondamentale: il meme è tutto ciò che nella cultura si replica. Proprio come il gene aveva la pretesa di essere la pietra fondante della biologia, così il meme si candida a esserlo della cultura: in complessi più o meno articolati, il meme è il modo in cui la cultura si dà e si riproduce. Anche i casi di innovazione culturale, vale a dire di discontinuità radicale, sono spiegati col modello dell’evoluzione genetica, per cui diversi meme elementari si riassemblano in composti nuovi da sembrare inauditi.
Dal 1976 a oggi, la scienza teorizzata da Dawkins non si è affermata, semplicemente i meme sono apparsi. Da vago modello interpretativo della cultura, ispirato all’evoluzionismo darwiniano, la memetica si è fatta carne ed è diventata i meme, quelli di Internet (Lolli 2018: 42).
MEME E INTERNET MEME
Oggi possiamo sostenere che il meme sia l’insieme di più unità semantiche e quel fenomeno virale che non mira a riprodursi sempre uguale a se stesso ma a reinventarsi, e che, perciò, si distingue dal semplice contenuto virale in virtù della sua apertura a nuove versioni, esortando gli utenti alla produzione costante di contributi mirati alla trasformazione.
Il meme è strutturalmente rubabile. O meglio, funziona proprio nella misura in cui viene sottratto e condiviso, restando essenzialmente un’open source (Lolli 2018: 94): se non fosse preso e reinventato, non si potrebbe neppure chiamare meme. In questo senso la prassi memetica è la prima forma espressiva di massa che realizza davvero la morte dell’autore. Funziona là dove non vi è autore, perché non v’è neppure opera.
Quando Foucault o Barthes parlavano di morte dell’autore si riferivano in primo luogo a quella funzione biografica, e borghese, attraverso la quale si leggeva l’opera, attribuendole il possesso ultimo dei significati (Lolli 2018: 94). Ma questo primo senso di morte dell’autore viene già attuato dagli pseudonimi e dalle altre forme di anonimato debole che spezzano il legame tra autore e biografia incarnata. Il discorso sulla morte dell’autore si fa più interessante quando intacca l’opera stessa, aprendola.
Se tutto il discorso sull’opera aperta, fratello di quello sulla morte dell’autore, non poteva fare a meno della presenza materiale di una e una sola opera, il meme è invece l’opera aperta realizzata. Non più semplicemente attualizzata in modo diverso nella mente di ciascun lettore, ma attualizzata in modo diverso da ciascun memer nella realtà, o in quello spazio seminale che è la virtualità di Internet, comunque intersoggettivo. L’autore scompare perché scompare l’opera che è strutturalmente incompleta: una cornice memetica da riempire e reinventare, che ha senso solo nel momento in cui è riempita e reinventata (Lolli 2018: 95).
I meccanismi di diffusione dei meme partono dai singoli individui come frammenti di cultura che si propagano online e una volta normificati divengono fenomeni sociali collettivi. Caratteristica del meme è quello della normificazione (Mazzoleni 2019: 65), ossia la compiuta evoluzione del meme che diviene comprensibile ai più, e lo predispone quindi a quel processo di variazioni sul tema in grado di generare nuove cornici memetiche (Mazzoleni 2019: 66).
La capacità dei meme di diffondersi attraverso le attività di condivisione degli utenti attua un processo di riconfezionamento perpetuo e personale. La propagazione micro-macro, la riproducibilità e la variazione dei meme rappresentano le nuove espressioni vernacolari della cultura pop intaccando una buona parte della discussione nella sfera pubblica ibridata.
Gli Internet meme rappresentano la quintessenza della cultura partecipativa in quanto vivono in virtù della loro apertura a nuove versioni, diffondendosi nell’ecosistema mediale in maniera decentralizzata e immediata.
In Rete la caratteristica fondante del meme, la replicabilità individuata da Dawkins, si arricchisce della cultura del remix attraverso le pratiche che gli utenti, garantendone la circolazione, sono chiamati a compiere: modificare, fondere e aggiungere i prodotti della cultura popolare.
La forma memetica più comune è quella delle immagini macro ‒ una sorta di prototipo ideale che si basa su didascalie inserite nell’immagine, garantendo così una sovrapposizione semantica tra il personaggio rappresentato graficamente e la funzione narrativa che incarna.
Differenza e ripetizione sono i tratti distintivi che costituiscono la catena memetica nella quale, a ogni passaggio, vi è un elemento fisso e un elemento variabile. Generalmente l’elemento fisso è il fotogramma mentre quello variabile è la didascalia (la parte testuale dei primi meme era caratterizzata dal font impact minuscolo, successivamente si è passati all’helvetica minuscolo); in ogni caso è necessario che sussista un rapporto dialettico fra le due parti in quanto la variazione deve seguire coerentemente il tema stabilito dall’elemento fisso ed è possibile apportare modifiche al meme una volta che questo sia già entrato a far parte dell’uso collettivo e che quindi avrà già assunto un significato di base condiviso e comprensibili agli utenti.
IL MEME POLITICO
La questione dell’ideologia del meme è particolarmente importante rispetto alle dinamiche della comunicazione politica nei social media. L’ecosistema mediale ibrido è lo spazio in cui i cittadini possono attivare nuove relazioni con gli attori politici tradizionali e con i media grazie all’aumento dei dispositivi personali di connessione che permettono di creare uno spazio alternativo per la critica sociale e politica, che si svolge al di fuori dei media tradizionali.
I meme politici si diffondono e si trasformano secondo una logica comunicativa in cui si incontrano contemporaneamente gli elementi della cultura digitale con quelli della cultura politica. Questa logica viene definita ipermemetica (Mazzoleni 2019: 91) e si fonda su tre elementi cardine: economia dell’attenzione, logica sociale della partecipazione, logica culturale ed estetica.
Il primo aspetto si riferisce all’economia dell’attenzione che gli utenti devono sviluppare per far fronte al sovraccarico informativo. In questo senso, l’uso dei meme può essere considerato come uno strumento per attirare l’attenzione dei pubblici e dei mass media.
Il secondo aspetto è strettamente connesso con il concetto di networked individualism e ne evidenzia la dualità. I cittadini costruiscono la propria identità e il proprio sé in maniera individuale, obbligati a trovare una “soluzione biografica a contraddizioni sistemiche” (Mazzoleni 2019: 91) a causa della crisi dei modelli sociali e delle istituzioni tradizionali, ma allo stesso tempo rivelano la loro natura di animali sociali nella spinta verso la costruzione di reti di relazione che attivano nei social media. Gli Internet meme rispondono a entrambe le esigenze, permettono sia di condividere il proprio punto di vista, sia di inserirsi in un flusso comunicativo sociale, ovvero “permettono agli individui di essere ‘se stessi’, insieme”.
Il terzo aspetto è governato dalle logiche sviluppate nella cultura pop e nelle comunità dei fan. Gli usi attraverso cui i meme evolvono possono essere interpretati come i modi in cui le modalità classiche di produzione culturale si ibridano con le nuove opportunità rese disponibili dalle piattaforme digitali. Il meme rappresenta dunque uno strumento particolarmente adatto per l’analisi delle trasformazioni delle pratiche sociali introdotte della cultura popolare, nonostante l’apparente superficialità dei discorsi vernacolari che veicola (Mazzoleni 2019: 91).
4CHAN E ANONIMATO RADICALE
La nascita e successiva esplosione dei meme è avvenuta su un’imageboard (Lolli 2018: 86) ‒ un forum incentrato sulle sole immagini – chiamata 4chan, creata nel 2003 da Christopher Poole e definita dallo stesso “una fabbrica di meme” (Nagle 2018: 25).
4chan aveva esordito come base per scambi tra appassionati di anime giapponesi, ma la principale influenza sullo stile che Poole dette al sito veniva da una sezione del forum Something Awful intitolata the anime death tentacle rape whorehouse, inaugurata nel 2003 e cresciuta fino a raggiungere, all’inizio del 2011, circa 750 milioni di visualizzazioni al mese.
Ogni nuovo iscritto veniva definito newfag (nuovofinocchio) mentre gli altri erano oldfags (vecchifinocchi). 4chan diventò un forum al contempo enormemente creativo e influente, noto per beffe e meme. La cultura del sito non era soltanto profondamente e ferocemente misogina, ma era al tempo stesso capace di disprezzare se stessa. Tra i punti di riferimento della chan culture c’erano i videogiochi di guerra e film come Fight Club e Matrix. Non era richiesto alcun tipo di registrazione né di login, ragione per la quale la maggior parte dei messaggi era di norma in firma “Anonymous”.
Questa cultura dell’anonimato creò l’ambiente adatto nel quale ciascuno era incoraggiato a esprimere i suoi pensieri più neri: la pornografia più bizzarra, battute per iniziati, gergo da nerd, immagini truculente, pensieri suicidari, omicidi e incestuosi, razzismo e misoginia erano tipici di questo esperimento virtuale, anche se, su tutto, regnavano i meme.
Un esempio della brutalità della Chan culture è riferibile alla vicenda del Gamergate (campagna diffamatoria diffusasi a partire dall’agosto 2014 nei confronti di numerose donne coinvolte a vario titolo nell’industria dei videogiochi e che si opponeva al presunto dilagare del femminismo e delle politiche identitarie nel mondo dei gamer). Anita Sarkeesian, esperta femminista di media, critica nei confronti dei videogiochi, divenne soggetto di una campagna d’odio come già era successo in precedenza, solo che in questo caso vi presero parte centinaia di migliaia di utenti raggiungendo livelli di manifestazione d’odio del tutto sconcertanti per gli estranei del mondo dei videogame, e per di più andando avanti per parecchi anni.
La sua colpa era stata la creazione di diversi video YouTube che spiegavano alcuni concetti chiave della critica dei media femminista, in uno stile comprensibile e dai toni gentili (Nagle 2018: 32). I video di Sarkeesian non contengono alcun appello alla censura o alla messa al bando dei videogiochi, e non includono critiche più feroci di quelle che qualsiasi osservatore della cultura popolare normalmente utilizza, a proposito di alcune rappresentazioni delle donne evidentemente retrograde contenute in certi videogiochi. Per questo crimine intollerabile, Sarkeesian ha sopportato anni di molestie personali che lasciano esterrefatti per il livello di crudeltà e perversione. La sua pagina Wikipedia venne vandalizzata e riempita di immagini pornografiche e messaggi d’odio, e venne lanciata una campagna perché tutte le sue attività sui social media venissero segnalate in massa come spam, truffe o persino terrorismo. Vennero effettuati diversi tentativi di hackerare il suo sito per mezzo di un attacco DDoS (Distributed denial of service) e di entrare nella sua casella e-mail. Vennero create immagini che la raffiguravano mentre veniva stuprata da alcuni personaggi dei videogiochi e uno sviluppatore che si riteneva personalmente offeso arrivò a creare il videogame Beat Up Anita Sarkeesian, in cui era possibile picchiarla fino a farla sanguinare, con occhi neri e gonfi (Nagle 2018: 33).
Alcune tra le svariate forme d’attacco utilizzate dai gamer antifemministi contro chiunque osi criticare la Chan culture sono il DDoS e il doxxing, che consiste nel rivelare i dettagli personali di qualcuno al fine di renderlo oggetto di molestie di massa. Questa cultura web, anonima e priva di leader, ha finito per essere caratterizzata da una oscura preoccupazione per una mascolinità bianca e occidentale sempre più messa in discussione e rifiutata ‒ la qual cosa ha avuto anche riflessi nella “vita reale”; su 4chan, in un post del 1° ottobre 2015, si leggeva:
“Il primo della nostra specie ha fatto sì che la paura si insinuasse nei cuori d’America…E questo è solo l’inizio. La Ribellione Beta è cominciata. Presto, molti altri dei nostri fratelli prenderanno le armi per diventare martiri di questa rivoluzione”.
Questo post si riferiva al caso reale di un ragazzo di nome Chris Harper-Mercer che aveva ucciso nove compagni di classe e ferito altri nove prima di spararsi all’Umpqua Community College di Rosenburg, Oregon (Nagle 2018: 40). La notte prima della sparatoria, qualcuno pubblicò nella sezione /r9k/ di 4chan un messaggio che metteva in guardia gli altri frequentatori del nord-ovest degli Stati Uniti dicendo loro di stare alla larga dalla scuola il giorno successivo. Il primo a rispondere nel thread chiese: “È iniziata finalmente la rivolta beta?” incoraggiando l’autore anonimo del post e dandogli consigli su come eseguire una sparatoria di massa (Nagle 2018: 41).
PEPE THE FROG E ALT-RIGHT
Un meme particolarmente importante per le implicazioni sociopolitiche che ha “involontariamente” generato è quello di Pepe the Frog. Pepe the Frog nasce nel 2005 come uno dei protagonisti del fumetto underground creato da Matt Furie: si tratta di una rana antropomorfa verde con il corpo umanoide. Nel 2008 diventa un meme di internet, usato perlopiù come reaction, raffigurato unicamente come illustrazione che lo vede urinare dicendo “feels good man”. Indicativo è il fatto che questa illustrazione di Pepe è stata in voga per un intero anno, il che ci dà la misura del tipo di scene imbarazzanti e cringe ‒ termine difficilmente traducibile in italiano che si avvicina all’imbarazzo per immedesimazione con qualcuno che consapevolmente o inconsapevolmente sta facendo qualcosa di imbarazzante; una sorta di imbarazzo empatico ‒ predilette dai memers (Lolli 2018: 105).
Nel corso degli anni, l’influenza di Pepe the Frog cresce lentamente ma costantemente, precipitando in un abisso vorticoso che da un contesto sotterraneo lo tramuta definitivamente in soggetto mainstream. Infatti, intorno al 2014, la rana più famosa di 4chan è stata cooptata da celebrità come Katy Perry e Nicki Minaj nei panni di semplice cartoon buffo alle prese col jet lag e il fitness, ottenendo un cospicuo numero di like e retweet, il che, a causa del livello di normificazione raggiunto, lo ha definitivamente condannato a morte.
C’è però da dire che, in quel preciso momento storico, negli Stati Uniti si era entrati in campagna elettorale: alle elezioni primarie che videro scontrarsi repubblicani e democratici, una fetta consistente di 4chan aveva scelto di continuare a usare il meme di Pepe the Frog come vessillo della sua guerra culturale, accusando la sinistra di non saper o non poter memare (Lolli 2018: 158) perché troppo moralista, buonista e politicamente corretta ‒ motivo per cui vennero prodotti dei Pepe politicamente scorretti, impossibili da cooptare, come Pepe misogini, Pepe Ku Klux Klan, Pepe Hitler e infine Pepe Donald Trump.
La sorte di Pepe the Frog viene segnata il 13 ottobre 2015, quando Donald Trump twitta un meme di se stesso trasformato in Pepe the Frog mentre parla da un podio in qualità di Presidente degli Stati Uniti con lo slogan di quella parte reazionaria di 4chan chiamata in seguito Alt-right che recita “You can’t stump the Trump”. In un solo giorno, i destini di Pepe the Frog, Donald Trump e Alt-right si intrecciano. Dopo l’elezione di Trump, gli analisti si mostrarono d’un tratto interessati a quel nuovo movimento di destra attivo sul web che si era fatto notare proprio grazie al frequente utilizzo di meme, con Pepe the Frog che dominò l’immaginario comune nel periodo antecedente alle elezioni statunitensi, e che l’Anti-Defamation League inserì tra i simboli d’odio razziale.
La stampa battezzò questo miscuglio di fenomeni online, che includeva qualsiasi cosa, da 4chan ai siti neonazisti come Alt-right. In senso stretto, Alt-right ‒ da Alternative Right ‒veniva utilizzato dagli stessi circoli online che vi si riconoscevano solo nell’ambito di una nuova ondata di movimenti e sottoculture segregazionisti e nazionalisti bianchi.
La alt-right si occupa, a vari livelli, di quoziente intellettivo, calo demografico e declino della civiltà europea, decadenza culturale, marxismo culturale, antiegualitarismo, islamizzazione e soprattutto ‒ come il nome stesso suggerisce ‒ di cercare un’alternativa all’establishment conservatore di destra, che loro definiscono cuckservative (conservatori cornuti e contenti) (Nagle 2018. 22) per la loro debole passività cristiana e per aver offerto, metaforicamente, le loro “donne”, cioè la loro nazione e la loro razza, agli invasori stranieri non di razza bianca. (Nagle 2018: 22).
MEME E SOCIETÀ 2.0
In conclusione, i meme sono elementi della cultura popolare che vengono diffusi, riprodotti e reinventati allo scopo di creare una esperienza culturale condivisa e uno strumento sociale per influenzare il discorso pubblico. La condivisione di tali dispositivi è in grado di incidere profondamente sull’organizzazione e sulle dinamiche su cui si basa l’azione partecipativa, ricettiva e attiva degli utenti. Il registro drammatico e consapevolmente cinematografico tipico dello stile online prediletto dagli “anonimi radicali” ha conseguenze raccapriccianti nella vita reale: nel 2014 un utente anonimo di 4chan pubblicò online numerose foto di quello che sembrava essere il corpo nudo di una donna che era stata strangolata, insieme a una confessione: “Ho scoperto che strangolare una persona fino a ucciderla è molto più difficile di quanto sembri dai film… Presto suo figlio tornerà da scuola, la troverà e chiamerà la polizia. Volevo solo condividere la foto prima di essere scoperto” (Nagle 2018: 41).
Numerosi i casi di utenti che prima di compiere un omicidio decidono di condividere sul web le proprie intenzioni, trovando un cospicuo numero di utenti pronti a suggerire consigli e strategie. Ciò che spesso viene ignorato è il fatto che persone reali diventate Internet meme scelgono il suicidio – come Tiziana Cantone, morta a seguito delle numerose parodie virali che la riguardavano – per mettere fine alle molestie di massa subite.
La condivisione degli Internet meme segna il passaggio da una logica sociale collettiva a una logica sociale connettiva e, proprio perché i meme sono un’espressione di questa logica, ciò che mai dovrebbe essere sottovalutato è la loro portata epistemologica ‒ a maggior ragione nell’epoca del web 2.0, un’epoca totalmente priva di memoria storica nella quale giace l’orrore e, al tempo stesso, la banalità del male.
‒ Giada Rodinò
BIBLIOGRAFIA
Marc Augé, Non-lieux, Editions du Seuil, 1992 (trad. it. Nonluoghi, Milano, elèuthera, 2020).
Alessandro Lolli, La guerra dei meme. Fenomenologia di uno scherzo infinito, effequ, Firenze 2018.
Gianpietro Mazzoleni, Roberta Bracciale, La politica pop online. I meme e le nuove sfide della comunicazione politica, Il Mulino, Bologna 2019.
Angela Nagle, Contro la vostra realtà. Come l’estremismo del web è diventato mainstream, Roma, LUISS University Press, Roma 2018.
Saggio elaborato nell’ambito del corso di Critical Writing II, Biennio in Arti Visive e Studi Curatoriali, NABA – Nuova Accademia di Belle Arti, a.a. 2019/2020
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