Quarto e ultimo appuntamento con la rubrica dedicata all’uso della realtà virtuale, accelerato dal lockdown, nell’ambito espositivo. Ne abbiamo parlato con Ivan Quaroni, curatore e critico d’arte.
Hai detto che le mostre virtuali sono come un powerpoint, buono per ripassare una lezione ma completamente inutile ai fini dell’esperienza estetica. Però non credi che sia comunque utile poter disporre di una galleria o di un museo di riserva, soprattutto quando non si può accedere a quelli veri?
Vorrei chiarire la mia posizione tentando di uscire dalla dialettica binaria di chi è favorevole o contrario alle mostre virtuali. Temo che la questione non sia così semplice. Penso che vada incoraggiato lo sviluppo di qualsiasi strumento che aiuti a diffondere informazioni sull’arte, mostre virtuali comprese. Però, credo che l’esperienza estetica possa avvenire solo in presenza di un’opera originale, un argomento che prendo in prestito da Walter Benjamin, per il quale l’aura dell’opera dipende dall’Hic et Nunc, cioè dal fatto che l’esperienza avvenga in un tempo e in un luogo precisi. Aggiungo a questi due elementi anche lo stato d’animo dell’osservatore, che è un fattore che non rientra necessariamente nei parametri spazio/temporali. Aggiungo, usando le parole di Wilhelm Worringer (Astrazione e empatia, 1908), che “godere esteticamente significa godere di noi stessi in un oggetto sensibile diverso da noi, immedesimandosi in esso”.
Quindi qual è il tuo punto di vista?
Prescindendo da Benjamin e Worringer, io mi baso sulla mia esperienza personale. Faccio un esempio: qualche anno fa andai con l’amico Vanni Cuoghi a vedere gli affreschi di Paolo Uccello con le Storie di Noé nel Chiostro verde di Santa Maria Novella. Era tardo pomeriggio e il sole stava per tramontare. Ricordo che rimanemmo in silenzio a contemplare i dipinti, quasi dimentichi l’uno dell’altro, fino a quando una luce vespertina non inondò la parete di una meravigliosa tonalità rosa. Allora ci guardammo stupiti e uno dei due se ne uscì con una colorita interiezione verbale. Non ricordo affatto quel che pensai, ma ancora adesso posso rievocare quella sorta di immersione interiore, quella sensazione di accrescimento vitale ed estetico.
Qualcosa di simile mi è successo quando, in gita a Londra con un gruppo di amici, fui lasciato da solo a visitare la Collezione Saatchi nella vecchia sede della galleria alla County Hall. C’erano ovviamente tutte le opere dei cosiddetti Young British Artists, dallo Squalo di Damien Hirst al Letto sfatto di Tracey Emin, fino alla celebre foto di Mat Collishaw col cranio di una persona perforato da un proiettile. Anche in quell’occasione ebbi la netta sensazione di un accrescimento, di avere, cioè, provato qualcosa che non avrei saputo spiegare a chi non avesse visitato quella mostra. Quando vado per chiese, musei o gallerie spero sempre di avere la fortuna di avere un’esperienza analoga. Naturalmente non accade di frequente, ma può succedere quando sei solo, motivato e ricettivo.
Hai anche detto che le mostre virtuali hanno un carattere segnaletico, che servono solo per ricordare al pubblico una certa istituzione o una sua iniziativa. Quindi consideri le mostre virtuali più uno strumento di comunicazione, una sorta di supporto al comunicato stampa?
Le mostre virtuali, analogamente alle lezioni di Storia dell’arte o allo studio individuale, rappresentano un momento di apprendimento. Si ricevono delle informazioni che poi devono essere tradotte in esperienza. Se io, ad esempio, studio su un manuale la storia di Giotto, non posso dire di conoscerne l’arte fino a quando non ho visitato la Basilica superiore di Assisi o la Cappella degli Scrovegni di Padova. Allora, ciò che avevo studiato mi permette una maggiore comprensione di quel che sperimento dal vivo con la mente e con i sensi. Sebbene io sia un appassionato di William Gibson e di letteratura cyberpunk, mi rendo conto che lo schermo di un computer o un visore 3D non sostituiscono l’esperienza di qualcuno che alzi lo sguardo per osservare la magniloquenza delle Storie di San Francesco sulle pareti della Basilica. Il rapporto dell’opera con lo spazio architettonico e la differenza di scala tra l’osservatore e l’opera stessa sono elementi rilevanti. L’atmosfera di una Basilica, il viavai dei pellegrini, il tempo di osservazione e perfino la temperatura e l’odore del luogo aiutano ad avere una percezione sinestetica. Poi c’è il fatto che l’opera, quella vera, è proprio lì, davanti ai tuoi occhi, e che tu, con un atto volitivo, ti sei recato al suo cospetto per osservarla e comprenderla in modi che nessuna descrizione iconologica potrebbe soddisfare.
Che cosa suggeriresti di fare per rendere le mostre virtuali più attraenti e coinvolgenti?
Qualsiasi espediente tecnico è il benvenuto, purché non si trasformi una mostra in una sorta di luna park interattivo, con cose becere tipo “Van Gogh che fa l’occhiolino”.
C’è una mostra virtuale che ti ha colpito positivamente?
Non è male la galleria virtuale degli Uffizi: un utile ripasso. Ma vuoi mettere la Primavera di Botticelli dal vivo?
‒ Mario Gerosa & Gianpiero Moioli
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