Promesa di Julián Palacios, uscito a ottobre del 2020, è un videogioco esplorativo in cui camminiamo in una serie di luoghi legati alla storia, segnata dall’immigrazione, dell’autore e della sua famiglia. In ogni partita incontriamo scene diverse (ambientate a Milano, in Argentina o in luoghi fantastici), legate in un diverso ordine e intervallate da testi che ricostruiscono un dialogo avvenuto tra Palacios e suo nonno.
Promesa fa parte di quel genere di videogiochi chiamati “walking simulator”, cioè “simulatori di passeggiata,” opere incentrate unicamente (o prevalentemente) sull’esplorazione in soggettiva dello spazio, ma esplorare lo spazio diventa qui un’esplorazione della memoria e della sua dimensione onirica e immaginaria. Per saperne di più, abbiamo raggiunto Palacios su Skype e abbiamo parlato con lui della genesi del suo videogioco, delle sue influenze e di Tarkovskij.
Iniziamo da te e dal tuo percorso di studi.
Sono uno sviluppatore di videogiochi indipendenti, sono nato a Milano figlio di genitori immigrati sudamericani. Ho appena finito il mio percorso di studi all’Accademia di Brera. Come sviluppatore sono autodidatta, a Brera ho imparato le basi di modellazione 3D, di montaggio video e ho seguito un corso di programmazione HTML che mi ha aiutato un po’ a entrare nella logica.
La storia di immigrazione della tua famiglia è uno dei temi di Promesa.
Mia madre è argentina e mio padre uruguayano. A loro volta sono nipoti e figli di immigrati, una situazione molto comune in Sudamerica: la storia del Sudamerica è una storia di migrazioni europee. Da parte di madre i miei bisnonni erano ebrei dell’est Europa (venivano da Russia, Polonia, Lettonia, Germania). Invece da parte di padre ci sono spagnoli, un italiano…
DAL SUD AMERICA ALL’EUROPA
Pensi anche tu di emigrare?
Non mi dispiacerebbe fare delle esperienze fuori ma preferirei rimanere. Forse anche un po’ per reazione, che è uno dei motivi per cui ho poi fatto Promesa, un lavoro sulla distanza, sulla relazione tra me e mio nonno materno, che adesso vive in Israele.
Nel gioco ti concentri molto sull’Argentina, sulla migrazione verso e dal Sudamerica.
Ci sono luoghi ispirati a un certo tipo di architettura argentina e anche tanti luoghi ispirati alla zona di Milano in cui vivevo. Ci sono anche tante immagini che appartengono a luoghi che non conosco, ad esempio l’Hotel de Inmigrantes di Buenos Aires, una struttura di inizio Novecento ora adibita a museo. Quel posto lì, con quell’aspetto, non esiste più, l’ho ricostruito a partire da foto. In Promesa ci sono due tipi diversi di elaborazione dell’immagine: da una parte ci sono cose molto personali, luoghi realmente esistiti e che raccontano una storia molto specifica, la mia; dall’altra ci sono luoghi che non mi appartengono, come la foto d’archivio da cui ho ricostruito l’Hotel de Inmigrantes.
Come si è sviluppato il progetto?
Al liceo ho iniziato a interessarmi al medium videogioco, ho iniziato a seguire la scena alternativa e lo sviluppo indipendente. Quando ho deciso di cimentarmi avevo quindi già dei punti di riferimento: non volevo concentrarmi su meccaniche ludiche, ero interessato a esperienze più sperimentali. Nel 2015, ho fatto un primo esperimento, partendo da un progetto di Increpare, che rilascia i codici sorgente delle sue opere. Nel 2016 ho partecipato a una game jam online a tema “rapporti epistolari” e ho fatto un primo lavoro sull’immigrazione. L’estate successiva sono andato a trovare i miei nonni. Era un brutto periodo e per la prima volta ho davvero parlato con mio nonno, da persona a persona. Gli ho detto che non mi sentivo bene e la sua risposta mi ha stupito, perché mi ha detto che anche lui non stava bene. Mi ha detto le cose che puoi leggere in Promesa, ovvero che si sentiva in un pozzo, costretto a letto, perdendo la memoria e l’indipendenza.
Dopo cos’è successo?
Ho capito che, in una conversazione, ogni elemento della comunicazione è ambiguo. Mio nonno che parla di esperienze passate sta cercando di rievocare qualcosa, di ricordare e trattenere, e io che ascolto posso solo immaginare. Per me diventano come un sogno, qualcosa a cui tendo. I luoghi dell’Argentina che lui ricordava diventano per me un mito. Ho deciso che volevo tirar fuori tutte queste immagini e ho iniziato lo sviluppo di Promesa.
PROMESA DI JULIÁN PALACIOS
Quanto ci hai messo per realizzare Promesa?
Quattro anni e mezzo. Ho deciso di prendermi tutto il tempo di cui avevo bisogno. Sono stati anni in cui ho imparato in continuazione aspetti tecnici del software, per cui certe scene le ho rifatte. Non è inusuale nel mondo dello sviluppo, soprattutto per progetti così personali.
Perché hai scelto la forma di un walking simulator?
Quando ho iniziato questo progetto, il walking simulator era una possibilità come le altre. Mentre lavoravo alle scene, iniziavo a scoprire i meccanismi che volevo usare (per esempio, mi sono accorto che mi piace molto entrare in una scena partendo da lontano). Il motivo per cui sono finito a fare un walking simulator è che pensavo che l’esplorazione di uno spazio potesse essere strutturata in modo che fosse un linguaggio a sé, senza le necessità di inserire altre interazioni. I CD-ROM multimediali degli Anni Novanta erano in fondo ambienti audiovisivi, che non consideravi videogiochi e in cui l’interazione aveva un altro significato. Ci sono tante modalità di interazione che hanno significati diversi.
Che è il motivo per cui il genere del walking simulator è nato. Quando Dan Pinchbeck ha creato Dear Esther, lo ha creato come uno sparatutto in soggettiva dove però non si sparasse, e quando Fullbright ha creato Gone Home è partita dallo sparatutto immersivo togliendo però, anche in quel caso, la componente d’azione e lasciando solo l’esplorazione ambientale.
Un gioco che per me è stato un punto di riferimento è LSD: Dream Emulator, con la sua idea di esplorazione aperta e senza direzione dello spazio. Ti fa incontrare dei luoghi su cui non hai controllo e non sai cosa aspettarti. Una delle cose che differenziano un gioco come LSD: Dream Emulator da Gone Home o Dear Esther è che questi ultimi descrivono una specifica situazione spaziale (una casa in Gone Home, un’isola in Dear Esther), con una logica di continuità tra gli spazi, mentre LSD: Dream Emulator e Promesa sono un flusso, anche temporale, con discontinuità spaziale.
LE FONTI DI ISPIRAZIONE DI JULIÁN PALACIOS
Oltre a LSD: Dream Emulator, quali sono state le tue influenze?
Come tono narrativo la mia principale influenza è stata il film Lo specchio di Tarkovskij, un film che non ha una storia ma è un montaggio di brani poetici, che salta continuamente tra diverse dimensioni (passato, sogni, visioni) senza spiegarti mai cosa stai vedendo. Tarkovskij mi ha ispirato anche nel linguaggio: molte cose scritte da lui le ho sentite vicine a situazioni che possono avvenire negli ambienti 3D di un videogioco. Tarkovskij spiega come l’essenza del cinema sia il tempo: quello che la tecnologia del cinema fa è catturare l’irripetibilità di un avvenimento. Per come la vedevo io, mi sembrava che il videogioco funzionasse all’opposto: quando uno esplora un ambiente 3D, l’ambiente è sempre quello, il tempo interno non scorre e l’accento è sulla qualità del tempo di chi sta giocando. Le immagini che vediamo sullo schermo non esprimono l’irripetibilità di un fatto, come nel cinema, ma l’irripetibilità del nostro coinvolgimento nel gioco. Ogni volta sei tu a fare cose diverse, e viene espressa così la natura interattiva e individuale del videogioco.
‒ Matteo Lupetti
https://julian-palacios.itch.io/promesa
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