Art Layers: 10 filtri d’artista per Artribune. Intervista a S()fia Braga
Art Layers è una mostra di filtri Instagram d'artista curata da Valentina Tanni per il decennale di Artribune. Il progetto include le opere di dieci artisti italiani, visibili sul nostro profilo ogni due settimane. Il quarto filtro, online da oggi, è quello di S()fia Braga, che abbiamo intervistato.
Cominciamo dal filtro che hai realizzato, “Stalk Myself ♡”. Da dove nasce l’idea?
Stalk Myself ♡ è un filtro per chiunque stalkeri se stesso più del dovuto senza saperlo. Il progetto analizza il tema della sorveglianza partecipatoria, ovvero una sorveglianza orizzontale che viene esercitata non solo dalle piattaforme social centralizzate non istituzionali che operano su internet, ma dall’utente stesso. Si tratta di un soggetto che ho trattato già in molte mie opere attraverso pratiche di appropriazione di contenuti online e “cyberstalking”.
Come funziona, in pratica?
Il lavoro si presenta come un beauty filter ispirato alle estetiche tipiche delle e-girls, sottocultura che nasce e vive online, fortemente influenzata dalla cultura kawaii, k-pop e cosplay asiatica. Sulle guance tinte di rosa la scritta Stalk Myself predomina la scena, ma appena lo schermo viene toccato l’attenzione cade sullo spettatore che viene ammonito con la scritta “Stalk You”. Le pupille si trasformano in lenti per la video sorveglianza donando al volto un aspetto robotico, il tutto incorniciato da un effetto luminoso scintillante in contrasto con una serie di particelle rappresentanti il logo del rischio biologico. Le particelle sbucano ironicamente dalla testa del fruitore come simbolo della mutazione dell’utente da mero consumatore a prodotto stesso, una malcelata trasformazione imposta dall’evolversi delle strutture e dinamiche interne delle piattaforme social stesse.
Stalk Myself ♡, come tutti i filtri che ho creato in passato, è fortemente influenzato dalle ricerche portate avanti durante una residenza in Giappone presso lo IAMAS – Institute of Advanced Media Art and Sciences, nella quale mi focalizzai sulle influenze delle Purikura (cabine fotografiche che permettono ai clienti di decorare digitalmente le proprie foto tessere) e le beauty app asiatiche su trend ed estetiche in voga all’interno delle piattaforme social occidentali.
Cos’è il cyberstalking? Ce lo puoi spiegare meglio?
Mi piace definirmi cyberstalker per l’utilizzo improprio che faccio dei contenuti altrui nei miei lavori, ma in realtà ho iniziato a utilizzare questo termine solo durante la produzione di A Study on the Characteristics of Douyin e Meanwhile in China. Assieme al mio collega Matthias Pitscher decidemmo di utilizzare il concept del mio progetto I Stalk Myself more than I Should e applicarlo alla piattaforma cinese Douyin, la versione originale di TikTok utilizzata in Cina, che segue le regolamentazioni applicate dal Great Firewall. Unico problema? L’applicazione era disponibile solo sugli app store cinesi. Scaricare l’app fu la parte più complicata del progetto, ma alla fine, sotto gli pseudonimi di Sai Bao e Yang Mu iniziammo ad addentrarci in questo nuovo “ecosistema” e ad estrapolare un totale di 8 ore di contenuti che esibimmo come installazione per la prima volta a Changsha in Cina presso lo Xie Zilong Photography Museum.
Attraverso queste azioni di “cyberstalking” cerco di stravolgere la user experience portando alla luce alcune caratteristiche strutturali dei social media, come lo sfruttamento dell’esigenza umana del raccontarsi e confidarsi online che mette in moto quella che viene definita sorveglianza partecipatoria, o interveillance, come dicevo poco prima.
Spesso inconsapevoli, diventiamo parte attiva di una struttura di potere che non si basa più sul controllo e sulla repressione ma sulla prevenzione attraverso la promozione di convinzioni e abitudini che fanno leva su processi di identificazione e che si manifestano spesso sotto forma di trend virali. Nei miei lavori cerco di rendere gli utenti consapevoli della rilevanza che hanno all’interno di queste strutture e li invito a prendere una posizione critica innescando tecniche di sovversione volte a sconvolgere e stravolgere la quotidianità all’interno della piattaforma.
Quando ti sei avvicinata per la prima volta ai filtri?
Ho iniziato ad interessarmi ai filtri attraverso l’app BeautyCam di Meitu molti anni fa. Nello stesso periodo sperimentavo con Snapchat e cercavo principalmente di usarli in modo alternativo, di sabotarli. Snapchat non mi ha mai convinta, mentre rimasi totalmente colpita da BeautyCam: l’interfaccia era completamente in cinese, incomprensibile, ma le opzioni erano infinite. La app si incentrava principalmente sul digital makeup, dando agli utenti la possibilità di modificare le caratteristiche del proprio volto e creare un look personalizzato. Mi dilettavo così nel deformare il mio viso per creare mostruosità, esagerando e stratificando diversi makeup uno sopra l’altro.
Ho sempre visto in quell’eccesso la possibilità di riscoprirsi, e dal mio punto di vista i face filters innescano proprio questo meccanismo. A differenza di molti, non vedo nei filtri un potenziale problema legato alla percezione del corpo, ma uno strumento che in realtà svela la falsità dei canoni di bellezza proposti dai media tradizionali mostrandone il loro funzionamento. Un’immagine post-prodotta crea realtà e corpi inesistenti con la pretesa di essere più vera del vero; un filtro, al contrario, si stratifica sulla superficie del reale, ma la sua esistenza è effimera e può essere sabotata e compresa da chiunque ne usufruisca.
È da qui che nasce il tuo interesse per la realtà aumentata come strumento artistico?
Si. Inizialmente usavo programmi come Vuforiam, ma ero titubante sull’utilizzo del face tracking per ragioni di privacy e sicurezza. Anni dopo partecipai ad un corso di Augmented Reality tenuto dall’artista Tamiko Thiel presso il dipartimento di Interface Cultures dell’Università di Arte e Design di Linz, grazie al quale iniziai a interessarmi all’argomento anche dal punto di vista teorico. Fu allora che produssi il mio primo vero e proprio progetto AR, Images are for illustrative purposes only. Actual image may vary che è stato poi esposto all’Ars Electronica Festival.
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Quando sei arrivata ai filtri Instagram?
Ho creato il mio primo face filter per Instagram poco dopo il lancio di Spark AR da parte di Facebook. Ispirata dalla mia esperienza precedente con BeautyCam, creai un filtro estremamente deformante che venne accettato circa un anno dopo la sua creazione in quanto non conforme alle norme della community: a detta di Mark Zuckerberg e dei suoi colleghi, avrebbe potuto spingere alcuni utenti a prendere in considerazione la chirurgia plastica estetica. Nonostante ciò, i filtri con leggere deformazioni estetiche continuavano a essere accettati e spinti dall’algoritmo, poiché approvati dagli standard di bellezza occidentali. E ne ebbi poi la conferma: uno dei filtri che creai in seguito, decisamente meno deformante, venne accettato immediatamente e raggiunse più di duecentomila impressioni in un giorno solo.
Al momento sto facendo delle ricerche sulla percezione e le possibilità del corpo concentrandomi principalmente sull’apertura della prima e seconda vulva sulla fronte e svolgendo pratiche che coinvolgono la canalizzazione della clitoride nascosta. Apparentemente i filtri sembrano essere uno strumento utile per la riscoperta del proprio corpo: basta aprire la camera dello smartphone, concentrarsi sulla propria immagine, scattare un selfie, chiudere Instagram e andare a masturbarsi. Questi esercizi aiutano anche nel rafforzare autostima e sicurezza in sé, ma viene consigliata una pratica di almeno cinque minuti al giorno per ottenere risultati evidenti.
La ricerca è ancora in corso e ci saranno novità nei prossimi mesi. Chiunque voglia iniziare questo percorso può andare nella sezione filtri del mio profilo Instagram ed esercitarsi.
Chi sono le autrici e gli autori di filtri Instagram che segui?
Sono sempre alla ricerca di giovani autrici, le vere e-girls, mi affascina il modo in cui riescono a rendere alcuni effetti semplicemente posizionando le luci nel punto giusto, l’utilizzo impeccabile che fanno dei pennelli e il modo in cui modellano le forme del volto. A volte passo molto tempo davanti ad alcuni filtri per riuscire a capire come rendere un certo effetto visivo a livello estetico e tecnico. Per me non è poi così diverso dal contemplare un dipinto o una scultura per cercare di capirne le sue strutture intrinseche.
Degli artisti più conosciuti invece mi interessano in modo particolare coloro che riescono a creare vere e proprie atmosfere surreali: è questo il caso di Locvs Solvs, un collettivo di artisti digitali che producono filtri di alto livello anche su commissione, Nikita Replyanski e i suoi filtri cyber, la ormai conosciutissima Ines Alpha, che cerca di superare stereotipi di bellezza con un approccio molto creativo all’e-makeup e tantissime e tantissimi altri.
La tua ricerca artistica è incentrata sulle estetiche native del mondo digitale. Quali sono gli aspetti che ti interessano maggiormente della cultura di internet?
Mi concentro principalmente sull’impatto sociale delle interfacce dei social media centralizzati, mi interessa il modo in cui vengono progettate e come queste riescano a manipolare alcuni comportamenti degli utenti. Una caratteristica sulla quale mi sono focalizzata molto è l’aspetto narrativo delle Stories di Instagram. È interessante notare come la loro natura effimera spinga la maggior delle persone a condividere dettagli sempre più intimi della propria quotidianità senza considerare il fatto che i dati condivisi, immagini o video che siano, dopo ventiquattro ore non svaniscono nel nulla, ma vengono conservati nei database della piattaforma.
Hai realizzato dei progetti artistici con le Stories?
Si. Ho fatto I Stalk Myself more than I Should, nel quale archiviavo e ri-condividevo storie di utenti Instagram all’interno del mio profilo personale e dello spazio espositivo, nel tentativo di produrre un eccesso di dati che creasse una moltitudine di narrazioni oggettivamente non interpretabili, e Die Verwandlung, un cortometraggio horror per Instagram Stories che vuole sfidare e sovvertire la fruizione dell’utente e il concetto di finzione e credibilità delle immagini all’interno dei social: immagini che evocano un qualcosa che non esiste più, che rappresentano e distruggono allo stesso tempo.
A cosa stai lavorando in questo periodo? Ci puoi dare qualche anticipazione sui progetti futuri?
In questo momento sto lavorando ad un video legato al progetto AR Forehead Vulva Channeling Research per un evento online organizzato da FACES, un collettivo di artiste che lavorano nell’ambito della media art, attivo dal 1997, in collaborazione con NRW Frauennetzwerk.
Assieme all’artista Matthias Pitscher e al curatore Davide Bevilacqua stiamo sviluppando la seconda edizione della Next Cloud Residency, una residenza online ospitata all’interno del cloud dell’associazione culturale servus.at di Linz. Inoltre ho in programma alcune mostre fisiche per la stagione autunnale, quelle però rimangono sempre un interrogativo a causa della situazione emergenziale.
Inoltre è appena uscita la pubblicazione Pandemic Exchange: How Artists Experience the COVID-19 Crisis curata da Josephine Bosma e pubblicata dall’Institute of Network Cultures, nella quale è presente anche un mio contributo. Fino al 29 luglio si può ancora visitare la mostra online Subterranean Virtualscapes presso la Virginia Bianchi Gallery nella quale potete trovare il mio progetto Don’t Kill My Vibe e quelli di altre artiste anch’esse coinvolte nella mostra Art Layers (Federica Di Pietrantonio, Martina Menegon e Kamilia Kard).
– Valentina Tanni
S()fia Braga è un’artista italiana che vive a Linz. Sviluppa la sua ricerca artistica all’incrocio tra pratiche Digital e Post-Digital, concentrandosi sulla materialità del web e sull’impatto sociale delle interfacce online. Si è laureata in Arti Visive presso l’Accademia di Belle Arti di Bologna e attualmente frequenta il master Interface Cultures presso l’Università di Arte e Design di Linz.
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