La mostra sul dietro le quinte della computer grafica
L'Osservatorio Fondazione Prada di Milano ospita una mostra che si confronta con uno dei linguaggi centrali del nostro tempo: la grafica computerizzata tridimensionale. “Sturm&Drang” esplora le applicazioni, le esperienze e gli ambienti legati alla Computer-generated imagery (CGI) per farci capire cosa si nasconde dietro le immagini che consumiamo ogni giorno.
All’Osservatorio Prada di Milano va in scena un progetto di mostra asciutto ed essenziale, che non lascia spazio all’intrattenimento e non si appoggia sulle piacevolezze visive della computer grafica. Al contrario, cerca di mettere in evidenza quello che accade “dietro le quinte”, dove un esercito di autori spesso anonimi assembla le immagini dentro cubicoli scarni, davanti a sfilze di schermi, tra il ronzio delle macchine sempre accese.
Abbiamo intervistato i curatori di Sturm&Drang: Luigi Alberto Cippini dello studio Armature Globale, e Fredi Fischli e Niels Olsen del Dipartimento di Architettura dell’ETH Zurich, per farci raccontare come è nata la mostra e cosa pensano del presente e del futuro della CGI.
Ho letto che il titolo della mostra, Sturm&Drang, contiene un riferimento alla “doppia natura della CGI”, ossia alla sua capacità di creare immagini realistiche ma anche fantastiche. Potreste spiegarci meglio questa idea? C’è anche qualche riferimento all’omonimo movimento pre-romantico?
Luigi Alberto Cippini: L’idea principale ‒ per quanto il titolo di una mostra possa effettivamente esprimere delle idee ‒ era quella di isolare le tecnologie di rendering attraverso notazioni e prosa appartenenti a strategie letterarie volte all’immersione dei lettori. Il titolo è anche un riferimento diretto all’eliminazione di qualsiasi corrente critica rivolta ai prodotti accademici ed editoriali. La disponibilità di piattaforme letterarie per professionisti nativi della CGI è una categoria vuota nel campo dell’industria editoriale, i titoli sono stampati direttamente dalle aziende di software e rientrano nella categoria dei manuali. L’idea era quella di iniziare a fornire autonomia critica, e dunque analisi, in questo campo della letteratura, in modo da trascrivere attivamente le operazioni che si fanno con mouse e software all’interno di testi, al di là dei compilatori di codice.
Fredi Fischli / Niels Olsen: Lo Sturm und Drang è un movimento letterario conosciuto per la sua espressione di gioventù. Anche se la CGI è una gigantesca industria controllata da grandi corporation, esiste un movimento giovane di programmatori, designer e artisti che si forma utilizzando tutorial online e condivide le proprie conoscenze su come costruire mondi immersivi. In questo senso, ravvisiamo un parallelo sorprendente con la natura della CGI, che crea ambientazioni in grado di impattare sul nostro coinvolgimento emotivo in modo comparabile a quello della letteratura del movimento storico dello Sturm und Drang. Forse un paesaggio al crepuscolo con un clima ventoso potrebbe essere il motivo ideale da usare per un artista CGI che voglia testare le proprie capacità. Allo stesso tempo ‒ e questo è il focus della mostra ‒ le condizioni di lavoro nel mondo della CGI sono in contrasto con la complessità delle immagini CGI come prodotto. Le condizioni spaziali che si nascondono dietro a questo lavoro sono essenziali e inospitali. Questo è un aspetto che ci interessa.
IMMAGINI SIMULATE E FOTOREALISMO
Quale tipo di reazioni vi aspettate dai visitatori della mostra? C’è qualche elemento interattivo?
Luigi Alberto Cippini: Oggi le mostre sono un media senza formato e la presenza degli spettatori viene utilizzata come delega critica. L’idea principale era quella di fornire come contenuto pura intelligenza-spaziale, arida e de-romanticizzata, che potesse funzionare come uno sfondo per l’isolamento critico di abitudini e ambienti tipici dell’industria della CGI. In questo senso non c’è spazio per l’interazione. Sturm&Drang è costruita (entro i limiti di un’esperienza museale) come un’iniziativa critica autonoma che unisce la museografia con dei materiali sfruttati e senza valore. È un tentativo di piegare il focus del museo verso settori che si collocano al di fuori del lavoro artistico in senso stretto, in modo da fornire un’analisi più ampia dell’infrastruttura che c’è alla base del lavoro e dell’ispirazione dei giovani artisti.
Fredi Fischli / Niels Olsen: Dopo la mostra non distruggeremo i materiali, ma sposteremo tutto nel campus dell’università ETH Zurich per creare uno spazio museale dedicato alla CGI in un gigantesco parcheggio sotterraneo che viene utilizzato di rado. Prima della mostra a Milano abbiamo lavorato con gli studenti di architettura, insieme ai curatori della Fondazione Prada e al team di Armature Globale, intervistando una serie di programmatori, designer e artisti. È un approccio collettivo e la mostra è basata su questi dialoghi. La mostra di Milano consiste in una serie di spazi di lavoro dedicati alla CGI interpretati da Armature Globale. Siamo d’accordo con l’artista Sybil Montet, che ha visitato la mostra durante l’opening, sul fatto che il nostro futuro museo dovrebbe impegnarsi a investigare ulteriormente i metodi di lavoro dei settori meno conosciuti della community CGI.
Come ha scritto una volta Harun Farocki, le immagini simulate con il computer “non sono solo una copia del mondo ‒ sono una nuova creazione del mondo”. La capacità di riprodurre l’apparenza degli oggetti e delle persone con sempre maggiore precisione illusionistica, tuttavia, sembra aver relegato la grafica 3D all’unico ruolo di tecnica di simulazione. Di conseguenza, la qualità dei suoi prodotti è stata perlopiù giudicata sulla base di un singolo parametro: il grado di fotorealismo raggiunto (“Se si vede che è CGI, è cattiva CGI”, si dice nel settore). È ancora così oppure qualcosa sta cambiando? Ci sono autori che cercano nuove forme ed estetiche al di là del fotorealismo?
Luigi Alberto Cippini: I pattern autoriali si possono riconoscere nelle diverse applicazioni e nelle modalità di produzione divergenti delle tecnologie a disposizione. La CGI influenza il lavoro degli artisti non solo attraverso categorie di rappresentazione, ma come alterazione naturale dei gesti critici causati dallo sfruttamento degli attuali formati di produzione. La disponibilità di piattaforme free software di terze parti si è scontrata con il lavoro degli artisti dall’inizio, amplificando in maniera falsata il loro lavoro nel contesto di ricostruzioni 3D dei loro progetti allestitivi (lavorare su un progetto in 3D per testare gli standard di allestimento ha spostato la questione nel campo dell’intervento artistico). Oggi, i veri artisti della CGI esistono al di fuori delle reti museali istituzionali e non hanno alcun interesse in possibili mutue interferenze. Il lavoro autoriale nella CGI è un tema interessante perché può essere percepito solo tramite la ricerca dell’errore; estrarre forza produttiva dalle linee di comando semplificate del software è il modo che usiamo attualmente per raggiungere un grado di fotorealismo effettivo e integrale, come quello degli studi di Hollywood. La soggettività autoriale si può raggiungere soltanto tramite la rinuncia al perseguimento del fotorealismo e della totale trasmigrazione in 3D.
Fredi Fischli / Niels Olsen: L’estetica della CGI è ambivalente. “Se si vede che è CGI, è cattiva CGI” può essere vero, perché altrimenti non creerebbe nuove forme di realtà. Se la CGI produce estetiche familiari ma le crea attraverso le nuove tecnologie, riesce a raggiungere risultati precedentemente impossibili come nel caso dei deepfake. Questi nuovi mondi iper-realistici sono assolutamente disturbanti e mettono in discussione l’universo visuale che abitiamo, in modo profondo. Le immagini CGI “non sono solo una copia del mondo – sono una nuova creazione del mondo” perché gli avatar abitano territori prima sconosciuti. Tuttavia la natura ambivalente delle immagini CGI, che combinano lo sconosciuto con il familiare, è probabilmente la sua caratteristica più sorprendente.
I RIFERIMENTI AL CYBERPUNK
Uno degli ambienti che avete costruito alla Fondazione Prada è ispirato a Neuromancer, il romanzo cyberpunk più famoso, quello in cui William Gibson usò per la prima volta la parola “cyberspace”. Inoltre, ultimamente capita sempre più spesso di sentire e leggere la parola “metaverso” (Mark Zuckerberg dice che ne vuole costruire uno), una parola coniata da Neil Stephenson in un altro romanzo cyberpunk, SnowCrash. Il fatto che tendiamo ancora ad appoggiarci a quel tipo di immaginario e di estetica ‒ nato più di quarant’anni fa – è interessante. Perché avete scelto Neuromancer e perché, secondo voi, il cyberpunk sembra conservare una grande rilevanza ancora oggi nel contesto del discorso sull’innovazione tecnologica?
Luigi Alberto Cippini: La rilevanza della nicchia del cyberpunk è il risultato del fallimento degli altri settori culturali nel presentare e filtrare modelli correnti di produzione. È anche l’unico spazio letterario in cui .jpg e altre estensioni di codice non sono un errata corrige ma costrutti letterari naturali. La ragione per cui abbiamo scelto Neuromancer è molto semplice: è forse la prima trascrizione in prosa di un ambiente in cui è presente l’atto di guardare uno schermo. Neuromancer, inoltre, è un oggetto leggendario nella storia del cinema perché il film non è stato realizzato a causa delle difficoltà nell’integrazione tra CGI e riprese tradizionali. Gibson, infine, è stato il primo a menzionare le “rendering farms” nel libro Pattern Recognition. Tuttavia, non è la sua rilevanza ad averlo portato nella mostra; rispondeva alla necessità di inserire degli elementi che aiutassero il pubblico generalista ad avvicinarsi a un contenuto di nicchia.
Fredi Fischli / Niels Olsen: Il romanzo di William Gibson è ancora attuale per la comprensione della CGI perché, come dimostra l’installazione di Armature Globale, tutto quello che ti serve è un vecchio computer Hitachi inserito nello spazio immaginario di un cheap hotel; in questo modo si mette in mostra la condizione spaziale di lavoro, valida ancora oggi, di un artista CGI. Mentre i programmi e le tecniche si sono evoluti, l’architettura effettiva dello spazio di lavoro resta identica a quella immaginata da Gibson decenni fa. Per comprendere la CGI, non solo come la visualizzazione di codice sullo schermo, ma anche come una forma di immaginazione, è stata un’importante lezione questa. La CGI è incorporata nei film, nella club culture, nell’architettura e nella letteratura; insieme, tutte queste differenti discipline vanno a formare una cultura della CGI.
CGI OGGI E IN FUTURO
Qual è, secondo voi, l’aspetto più nascosto e meno noto della produzione CGI?
Luigi Alberto Cippini: L’aspetto più affascinante è la costruzione progressiva di abilità cognitive e disciplinari che si svolge al di fuori delle accademie riconosciute. Inoltre la qualità aggregativa di una comunità che, se guardata da vicino, può aprire degli squarci di discussione sul tema della segregazione cognitiva fondata su forme di distribuzione.
Fredi Fischli / Niels Olsen: Secondo noi, l’aspetto più nascosto e meno noto della CGI non riguarda le tecniche ma i produttori. Chi sono le persone, i programmatori, i designer e questa classe creativa anonima nascosta dietro gli avatar che formano la cultura della CGI al di là dei nomi delle grandi corporation? Nella mostra non volevamo ritrarre i protagonisti della CGI, ma costruire delle interpretazioni del loro ambiente di lavoro e, così facendo, gettare luce sull’elefante nella stanza: gli autori nascosti.
Il teorico dei media americano Neil Postman sosteneva che “per ogni vantaggio che una nuova tecnologia offre, corrisponde sempre uno svantaggio”. Quali vantaggi e quali svantaggi pensate si possano associare alla CGI?
Luigi Alberto Cippini: Credo che il problema principale risieda nel fondare forme di aggregazione su format produttivi digitali, dando forma alla connessione sociale e all’interazione umana su piattaforme che in realtà servono solo a uno sfruttamento intellettuale avanzato.
Fredi Fischli / Niels Olsen: I vantaggi e gli svantaggi della CGI sono negli spazi nascosti che crea. Puoi nascondere la tua autorialità ma puoi anche essere sfruttato dalle corporation. Talvolta la questione è opaca ed è difficile decidere se stia succedendo una cosa oppure l’altra. C’è una promessa sovversiva nella CGI, ma allo stesso tempo la lontananza e la dislocazione che caratterizzano il lavoro su schermo generano anche realtà precarie.
‒ Valentina Tanni
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