Nel nostro percorso alla scoperta della fotografia in-game (o virtual photography), cioè della pratica fotografica svolta all’interno dei videogiochi, abbiamo corso nel deserto messicano con Davide di Tria e abbiamo esplorato il Giappone medievale con Emanuele Bresciani. Stavolta Justin Reeve ci porta nelle architetture del mondo steampunk di Dishonored di Arkane Studios (ora parte di Microsoft, che ha acquistato il suo proprietario ZeniMax Media).
Iniziamo con le presentazioni: chi è Justin Reeve?
Sono un archeologo specializzato in architettura, ma lavoro anche come rubricista su Unwinnable, dove scrivo di giochi e architettura, e come editor per la sezione di notizie del sito TheGamer. Sono specializzato in architettura antica, soprattutto quella del vicino oriente e più precisamente dell’Egitto, ma ho lavorato a progetti in tutto il mondo.
Cosa cerchi nella fotografia all’interno dei videogiochi?
Penso che molte cose interessanti che sono state fatte nel mondo della fotografia in-game puntino a ricreare i risultati che avresti in uno studio fotografico, ma il mio interesse è stato sempre più documentaristico. Quando gioco a un videogioco esploro in modo meticoloso i suoi livelli e come sono stati costruiti e scatto letteralmente migliaia di fotografie mentre lo faccio. Poi mi metto a setacciare queste immagini per tirarne fuori quelle che condividono un qualche tema comune. Come puoi aspettarti, molto spesso sono temi che riguardano l’architettura. Ho un sacco di immagini che mostrano lampade, tavoli e sedie, e persino vasche da bagno!
Come realizzi le tue fotografie? Usi qualche mod, cioè usi modifiche dei giochi realizzate appositamente dalla comunità?
No. Anzi, è la mia regola: uso solo ciò che è effettivamente incluso nel gioco. A volte c’è una vera e propria modalità fotografica, allora uso quella. A volte devo disabilitare le informazioni a schermo e arretrare con il personaggio fin quando non scompare dall’immagine. Sono sempre deluso quando trovo un gioco che non mi offre alcuna possibilità di ottenere buone fotografie. Anche per questo definirei il mio stile come documentaristico.
VIDEOGIOCHI E FOTOGRAFIA SECONDO REEVE
Finora su Artribune abbiamo visto usare la fotografia per dare nuove interpretazioni artistiche dei videogiochi, invece il tuo lavoro ha uno scopo piuttosto diverso. Mi ricordo che una volta, mentre parlavamo su Twitter, mi hai detto che rendi le tue immagini disponibili a chi ne ha bisogno per lavorare alle wiki, i siti che raccolgono guide e documentazione per i vari videogiochi. Queste immagini sono quindi uno dei modi in cui contribuisci alla comprensione e alla critica di queste opere? Qualcosa che regali, ma che fa parte del tuo lavoro come critico?
Sì, in effetti funziona proprio così. Ho iniziato a farlo anni fa, con l’intento di usare la fotografia per supportare i miei articoli. Ma poi qualche persona mi ha chiesto di usare i miei lavori e ho sempre acconsentito, quindi ora li distribuisco liberamente. Le mie foto sono comparse su articoli, wiki e anche in altri progetti artistici.
Potresti parlarci brevemente dei lavori che stai proponendo al pubblico di Artribune?
Queste serie, in particolare, riguardano quelli che secondo me sono gli aspetti più notevoli, e allo stesso tempo più ignorati, dei livelli di Dishonored. Volevo trattare questo argomento nel modo più completo possibile quindi ho scelto i tetti, i vicoli e i corridoi del gioco. Insomma, ciò che è sopra, sotto, dentro e fuori. È un videogioco incentrato sul muoversi in modo furtivo e silenzioso, un aspetto che queste immagini penso sappiano riproporre bene. Sono fredde e vuote, e mentre le ambientazioni sono veramente spettacolari, in qualche modo sembrano prive di sentimenti. Sono architetture che mostrano tracce delle persone che dovrebbero abitarle, ma in cui mancano proprio queste persone. E c’è una ragione perché questo accade: i corpi dei personaggi che ho ucciso sono nascosti alle mie spalle.
‒ Matteo Lupetti
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