Storica dell’arte e dello spettacolo, Elisabetta Modena (Modena, 1980) è ricercatrice post dottorato presso il Dipartimento di Filosofia “Piero Martinetti” dell’Università Statale di Milano. Insieme a Marco Scotti ha fondato MoRE. a Museum of refused and unrealised art projects, un museo digitale che raccoglie, conserva ed espone online progetti d’arte del XX e XXI secolo rifiutati o non realizzati. Modena svolge le sue ricerche negli ambiti dell’arte contemporanea, della museologia e della cultura videoludica ed è l’autrice de La Triennale in mostra. Allestire ed esporre tra studio e spettacolo (1947-1954) (Scripta, 2015). Questo dialogo si sofferma sui principali temi affrontati nel suo ultimo libro, Nelle storie. Arte, cinema e media immersivi (Carocci, 2022).
Nel tuo libro esamini il rinnovamento delle esperienze immersive in relazione ai modi della narrazione. Quali sono le principali ragioni all’origine di questa tua scelta?
Nelle storie è frutto della mia ricerca degli ultimi due anni nell’ambito del progetto AN-ICON (An-Iconology: History, Theory, and Practices of Environmental Images) finanziato dall’European Research Council e coordinato da Andrea Pinotti, docente di Estetica all’Università Statale di Milano. L’obiettivo del progetto, e del gruppo interdisciplinare che vi lavora dal 2019 e di cui faccio parte, è quello di sviluppare una riflessione teorica e una metodologia di studio applicabile alle immagini ambientali prodotte da tecnologie immersive come la realtà virtuale, aumentata e mista. La narrazione è un tema centrale di queste esperienze e io ho unito le mie competenze di storica dell’arte con quelle che avevo maturato nell’ambito dei Game Studies: per diversi anni ho insegnato infatti “Sceneggiatura dei videogiochi” all’Accademia di Belle Arti SantaGiulia di Brescia, facendo di una mia passione anche un lavoro e un’occasione di studio.
Dalle arti alle piattaforme social, dai videogiochi alle forme più recenti di documentazione giornalistica, le modalità di narrare storie sono sempre più immersive ossia caratterizzate spazialmente. Indagandole, metti in luce anche il rapporto tra immersione ed emersione. Di che relazione si tratta e come possiamo qualificarla rispetto alle possibilità offerte dalle risorse tecnologiche impiegate nei diversi ambiti?
Ho scelto di proporre una riflessione specifica, quella sulla narrazione immersiva – di cui in Italia si parla ancora poco e che ha delle specificità all’estero già più studiate –, prendendo in esame le sue declinazioni in diversi ambiti: da anni si ricorre con insistenza al concetto di esperienza immersiva nei contesti più diversi e il marketing ci propone quotidianamente immersioni di vario tipo. Questo non avviene solo nell’industria dell’intrattenimento e nel cinema: anche in ambito culturale artisti e istituzioni hanno adottato strategie più o meno convincenti per offrire esperienze che diano l’impressione di essere immersi in un altrove e completamente avvolti in uno spazio alternativo a quello in cui viviamo. Si tratta di immagini che diventano ambienti, in cui siamo chiamati a immergerci e la realtà virtuale ci dà questa possibilità indossando un visore che oblitera la nostra vista sul mondo: l’impressione è quella di essere sigillati in un ambiente fatto di immagini, ma anche di suoni e sensazioni aptiche, con cui possiamo interagire. L’altra soluzione è quella offerta dalla realtà aumentata che sovrappone elementi digitali alla realtà che ci circonda: la AR è in grado di far emergere oggetti e contenuti intorno a noi dando vita anche a ciò che è inanimato. Entrambe queste pulsioni non sono una novità: è nota la stretta affinità dell’immagine a 360° contemporanea con quella del Panorama ottocentesco, ma nel libro ho dedicato ampio spazio anche alla curiosa e meno discussa parentela che ho riconosciuto tra i libri pop-up e l’ologramma o la realtà aumentata.
ARTE E REALTÀ VIRTUALE
Un riferimento imprescindibile per la riuscita delle esperienze immersive e delle modalità di espressione narrativa che le caratterizza è il medium. Qual è il suo ruolo e come concorre alle trasformazioni più recenti delle arti e dei media immersivi?
Analizzando le opere realizzate dagli artisti contemporanei in particolare con la VR, mi sono resa conto del ruolo fondamentale che aveva la narrazione. Nell’arte contemporanea a utilizzare la realtà virtuale – che è nata negli Anni Sessanta – sono stati inizialmente alcuni artisti tra la fine degli Anni Ottanta e i primi Anni Novanta: è un medium molto interessante e complesso, che all’epoca risultava anche molto costoso. Quella del suo utilizzo da parte di artisti è una storia in parte studiata, in parte ancora da scoprire: mi sono sorpresa nello scoprire per esempio che Jenny Holzer realizzò nel 1993 ben due opere in VR, World I e World II, esposte al Guggenheim di New York a Soho nella mostra Virtual Reality: An Emerging Medium.
Sono numerosi gli artisti che negli ultimi anni stanno utilizzando la realtà virtuale.
Sì, tanti: da Jon Rafman e Jordan Wolfson a Laurie Anderson e Marina Abramović. In Italia sono diversi ad aver lavorato con la VR, per esempio Marzia Migliora, Sara Tirelli, Luca Pozzi ed Emilio Vavarella… Dei progetti immersivi di questi due ultimi artisti sono stata curatrice, insieme a Sofia Pirandello, in un programma di residenze virtuali chiamato 12° Atelier e svolto insieme alla Casa degli Artisti di Milano: mi ha permesso di capire e vedere da vicino che cosa significa progettare con questo medium. C’è un problema che riguarda anche il modo di esporre queste opere nello spazio, perché l’opera è “chiusa” dentro al casco ed esperibile quasi sempre in maniera solitaria. Per Rossetta Mission 2020 di Luca Pozzi la soluzione è stata quella di un’installazione ambientale con un enorme led wall che ne anticipava alcuni frammenti; Emilio Vavarella ha inteso The Italian Job, n. 3, Lazy Sunday come una performance vera e propria: chi non l’ha fruita il 23 gennaio scorso a Milano si deve accontentare delle fotografie e del trailer che ne rimangono.
Il potenziale immersivo e le possibilità narrative non sono esiti conseguibili solamente con le arti e i mezzi espressivi della comunicazione odierna, ma anche attraverso le istituzioni. Un caso emblematico è quello del museo. Come si caratterizza la sua natura immersiva?
Ho dedicato un capitolo del libro a questo tema, perché credo che sia davvero interessante capire come anche il museo possa utilizzare la narrazione immersiva per favorire la comprensione dei contenuti. Del resto anche la visita guidata tradizionale è una forma di narrazione applicata a oggetti muti o congelati, che necessitano di essere animati e per esempio i diorami dei musei di scienze naturali sono soluzioni statiche che mirano a ricreare interi contesti storici e habitat. In ambito archeologico l’anastilosi virtuale può essere accompagnata anche da un contesto narrativo e dare forma a esperienze in VR e AR con una funzione didattica, che è spesso coinvolgente anche dal punto di vista emotivo e che comunque, credo, deve sempre offrirsi come complemento della visita al sito o all’osservazione del reperto reale, mai come unica chiave di accesso.
IMMERSIONE, AMBIENTE E TECNOLOGIA
Un soggetto importante per comprendere meglio molti di questi aspetti è l’ambiente, alla luce delle effettive esperienze che possiamo fare nella realtà. Che importanza hanno questi riferimenti per capire le dinamiche immersive dell’arte contemporanea?
Possiamo parlare di ambiente davvero in tanti modi: ambiente è quello naturale e antropizzato che ci circonda e a cui si riferisce per esempio il lavoro di Jakob Kudsk Steensen, che con VR e AR ha realizzato delle esperienze di prefigurazione del futuro e di scavo nel passato del nostro fragile ecosistema: nell’arte contemporanea quando parliamo di ambiente pensiamo però anche all’installazione ambientale e del resto Aquaphobia (2017), dello stesso Steensen, è un room-scale VR environment perché contestualizza la fruizione in un’installazione allestita dall’artista come anticamera dell’esperienza. Credo che gli ambienti – per esempio quelli descritti nel seminale Ambiente/Arte da Germano Celant nel 1976 – abbiano rappresentato storicamente un precedente di quelli immersivi a cui pensiamo oggi quando usiamo questo aggettivo in relazione a esperienze digitali. Ma nel libro mi riferisco anche all’immagine che si fa ambiente a cui ho già accennato e all’ambiente come habitat, un luogo oggi composto di strati digitali e analogici all’interno del quale sempre di più ci stiamo abituando a vivere. Attraversiamo una fase di adattamento, anzi di acclimatamento, come quello che devono compiere i corpi degli alpinisti che scalano alte vette, o i subacquei che scendono in profondità nel mare.
Le possibilità immersive e narrative sono in continua trasformazione. Considerando in particolare l’assorbimento che rendono possibile, secondo te quali saranno i loro eventuali sviluppi futuri?
La dialettica tra assorbimento e immersione è al centro di tutto il libro. Tanto si è detto e scritto riguardo all’essere assorbiti nella lettura di un libro: Don Chisciotte del resto si convince di vivere in uno dei romanzi cavallereschi di cui era innamorato e si comporta in un modo per gli altri assurdo, scambiando mulini a vento per giganti da combattere. Ma se questo cavaliere avesse indossato un casco? Me lo sono chiesto spesso, perché oggi non ci stupiamo più quando vediamo qualcuno tanto assorbito dall’esperienza virtuale da dimenticare la realtà che lo circonda e muoversi in modi apparentemente insensati. Ho scelto per questo motivo come immagine di copertina l’opera di Elmgreen & Dragset This Is How We Play Together, le statue di due ragazzini che indossano un visore esposte fino a pochi giorni fa alla Fondazione Prada di Milano nella loro personale Useless Bodies?: optando per un candore che le rende del tutto simili a due sculture in marmo di Carrara, gli artisti assegnano ai due teenager una dignità pari a quella della statuaria antica e neoclassica e sembrano alludere a un passaggio antropologico.
‒ Davide Dal Sasso
http://www.moremuseum.org/omeka/
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