Il metaverso non esiste
Metaverso è ancora la parola del momento. Tutti la usano, ma sul suo significato si discute animatamente. Questo perché, nonostante l'hype, si tratta di un progetto in larga parte irrealizzato, un'idea messa sul mercato molto prima della sua attualizzazione.
In un’intervista rilasciata lo scorso dicembre a Kara Swisher del New York Times, lo scrittore americano di fantascienza Neal Stephenson – che il termine ‘metaverso‘ l’ha coniato nel suo romanzo Snow Crash – dichiara di non capire cosa ci sia di realmente innovativo nei progetti annunciati con tanto clamore da Mark Zuckerberg a fine ottobre. “L’idea di fare riunioni virtuali dove ognuno è rappresentato da un avatar. L’idea di giocare a un gioco da tavolo con qualcuno che è virtualmente dall’altra parte del tavolo, ma in realtà è molto lontano. È roba vecchia. È difficile per me capire cosa sostengono di fare di nuovo, a parte forse implementare queste vecchie idee su una scala più ampia, per un pubblico più vasto”.
La posizione di Stephenson rappresenta bene quella della sua generazione e, più in generale, l’impressione di chi è abbastanza grande da aver già assistito ad almeno un paio di ondate di hype incentrate sui “mondi virtuali”. È successo tra gli Anni Ottanta e Novanta con l’arrivo sul mercato dei primi rudimentali visori VR; poi negli Anni Zero, con nuovi device, una sperimentazione più intensa nel settore dei videogiochi e la messa online di piattaforme come Active Worlds e Second Life. E infine nel 2021, in piena era pandemica, con i progetti di grandi aziende come Facebook/Meta, Microsoft, Epic Games, Niantic, Nvidia, Decentraland.
L’ETERNO RITORNO DEI MONDI VIRTUALI
Ma cos’è il metaverso? E perché si investe tanto nella sua costruzione? Nonostante il termine sia arrivato sulla stampa generalista solo lo scorso anno, perlopiù in conseguenza del cambio di nome di Facebook, nel mondo della tecnologia se ne parla da molto più tempo. Tim Sweeney, CEO di Epic Games, società che produce videogiochi popolarissimi come Fortnite (da molti ritenuto l’oggetto reale più vicino all’idea di metaverso), nel 2016 dichiarava al magazine Venture Beat: “Il metaverso è una di quelle idee che la gente ha respinto per molto tempo, perché esperienze come Second Life non sono decollate su larga scala. Sistemi molto semplici come Facebook invece sono decollati, anche se già all’epoca avevamo la grafica 3D. Così ce ne siamo dimenticati, per circa 15 anni. Quando la VR è tornata e abbiamo iniziato a vedere le potenzialità di sistemi come il motion capture in tempo reale, è diventato chiaro che eravamo a pochi anni di distanza dall’essere in grado di catturare il movimento e le emozioni umane e trasmetterli in un’esperienza interattiva in un modo che è molto vicino alla realtà”. Secondo Sweeney, e molti altri come lui, il metaverso non sarà semplicemente “un” mondo virtuale, ma la nuova versione di Internet. Una versione immersiva tridimensionale e convincente.
UN AMBIENTE TRIDIMENSIONALE PERSISTENTE
Matthew Ball, venture capitalist americano che sul suo sito ha pubblicato una serie di estesi approfondimenti sul tema – il Metaverse Primer –, la descrive come una grande rete digitale composta da tanti ambienti 3D persistenti, renderizzati in tempo reale e abitati da un numero infinito di utenti. All’interno di questa rete è possibile avere “un senso della propria presenza individuale” grazie alla persistenza e continuità dei dati accumulati: dati sulla propria identità, la propria storia, le proprie interazioni, il possesso degli oggetti. All’interno del metaverso si potrà socializzare, creare contenuti, guardare film, giocare, lavorare, vendere e comprare. Idealmente, questo nuovo ambiente dovrebbe essere caratterizzato da un alto grado di interoperabilità: il che significa che tutte le aziende che contribuiscono alla sua costruzione dovranno mettersi d’accordo e adottare protocolli compatibili. In questo modo, avatar, oggetti digitali e dati sarebbero leggibili ovunque e “trasportabili” da un mondo all’altro. Infine, questa visione del Web 3.0 si intreccia profondamente con il mondo delle criptovalute e della blockchain in generale, che dovrebbe rivestire un ruolo importante nell’assetto economico, favorendo la decentralizzazione.
IL SOGNO DELLA FRONTIERA
Questa corsa alla costruzione del metaverso, che per tanti sembra nient’altro che un déjà-vu, dimostra sostanzialmente due cose: l’incredibile persistenza di un sogno umano (la generazione di mondi) e la necessità dell’industria tecnologica di inseguire sempre nuove “frontiere”. Per quanto riguarda il primo fattore, si tratta di un’evidenza difficile da negare: dagli affreschi della Villa dei Misteri a Pompei al Sensorama di Morton Heilig, passando per i panorami ottocenteschi, i trompe l’oeil barocchi, l’Artificial Reality di Myron Krueger e La Spada di Damocle di Ivan Sutherland, la costruzione di spazi illusori, capaci di ingannare i sensi, è stata una costante nella storia umana. Un sogno, quello del worldbuilding, che non accenna a spegnersi, alimentato da tanta letteratura e cinema di fantascienza, sempre in bilico tra magia e terrore. La possibilità di creare mondi artificiali perfettamente credibili riporta infatti sul tavolo l’ipotesi della Teoria della Simulazione, con la sua domanda inquietante: la realtà in cui viviamo è a sua volta una simulazione al computer, magari gestita da intelligenze aliene superiori (come accade nella saga di Matrix)?
Il secondo aspetto da considerare riguarda il fatto che la macchina tecno-capitalista ha costantemente bisogno di miti, narrazioni e nuovi territori da conquistare. In breve, ha bisogno di “inseguire il futuro”: questo le permette di attrarre capitali e di ammaliare utenti e investitori in cerca della Next Big Thing.
IL METAVERSO NON ESISTE
Quello che va chiarito, a questo punto, è che il metaverso ancora non esiste. Ciononostante, tantissime aziende nel mondo lo stanno già vendendo. La cosa che attualmente gli somiglia di più sono i videogiochi online, piattaforme che da molti anni sperimentano con successo la costruzione di mondi virtuali persistenti, abitabili, dotati di una propria economia e di un’affezionata popolazione. Una popolazione ogni giorno più vasta, che percepisce la propria presenza – anche senza gli avatar iperrealistici sognati da Tim Sweeney – e costruisce esperienze e ricordi all’interno di questi mondi insieme alla propria comunità di riferimento. Ma il metaverso inteso come ambiente onnicomprensivo, renderizzato interamente in tempo reale su larga scala e aperto a tutti, è poco più di un’idea. Un’idea complessa, costosa e molto probabilmente insostenibile da un punto di vista energetico.
LA BATTAGLIA PER IL FUTURO
L’aspetto inquietante, nella narrazione mainstream che circonda il metaverso, riguarda la tendenza a idealizzare questo ipotetico mondo artificiale: un luogo dove tutto è possibile, ogni cosa è personalizzabile e tutto è… Migliore del mondo reale. D’altra parte, Snow Crash era un romanzo distopico e il suo protagonista scappava nel Metaverso per dimenticare una realtà devastata. “Hiro non è affatto lì dove si trova”, scriveva Stephenson nel 1992, “bensì in un universo generato dal computer che la macchina sta disegnando sui suoi occhialoni e pompando negli auricolari. Nel gergo del settore, questo luogo immaginario viene chiamato Metaverso. Hiro trascorre molto tempo nel Metaverso. Lo aiuta a dimenticare la vita di merda del D-Posit”. Lo stesso romanzo non mancava di avvisarci che, anche se il Metaverso è progettato per farci sentire un po’ meno depressi, anche lì ci sono ricchi e poveri, servi e padroni, sfruttatori e sfruttati, quartieri di lusso e zone malfamate, vestiti costosi ed economici. E che al suo interno anche il crimine, la disuguaglianza e lo sfruttamento sono persistenti.
Nella discussione tra apocalittici e integrati, che puntualmente si riproduce nei momenti di avanzamento tecnologico, c’è chi vede nel progetto-metaverso la possibilità di aggiustare un’Internet ormai “rotta” – priva di libertà e soggetta al monopolio delle Big Tech – instaurando protocolli più aperti e partecipativi; e chi nel medesimo futuro vede solo un incremento del controllo e dello sfruttamento. La domanda da porsi quindi diventa: se la costruzione di un nuovo mondo è davvero in corso, cosa vogliamo portarci dentro? Quali idee, quali valori, quali sistemi di governance? La battaglia per il mondo-dentro, insomma, va combattuta prima qui, nel mondo-fuori.
UN FUTURO CHE RITORNA. INTERVISTA A MARCO CADIOLI
Marco Cadioli (Milano, 1960) è un artista che riflette sui risvolti culturali ed estetici delle nuove tecnologie sin dagli Anni Novanta. Le sue opere hanno esplorato i linguaggi della rete, il rapporto tra reale e virtuale e le nuove frontiere dell’intelligenza artificiale. Nei primi Anni Zero è stato uno dei protagonisti della scena artistica su Second Life. Con lui abbiamo parlato del presente e del futuro dei mondi virtuali.
Sei stato uno dei pionieri dell’esplorazione dei mondi virtuali online, soprattutto ai tempi di Second Life. Cosa pensi del “ritorno” di attenzione nei confronti di questo genere di piattaforme?
I riflettori sui mondi virtuali si sono accesi di colpo a ottobre 2021 con il rebranding di Facebook in Meta e con l’annuncio di Zuckerberg di grandi investimenti nello sviluppo di un proprio metaverso, Horizon Worlds. Microsoft si sta muovendo nella stessa direzione, con la piattaforma Microsoft Mesh annunciata a novembre 2021 e che sarà disponibile nel 2022, e anche Nvidia ha in sviluppo il suo metaverso chiamato Omniverse, al momento in open beta. Non si tratta più di una singola esperienza sperimentale come quella di Second Life, ma dello sviluppo contemporaneo di diverse piattaforme che si affiancano ad alcune già esistenti.
Cosa è cambiato da allora?
Il contesto generale è molto diverso da quello del 2005, quando è iniziato il fenomeno di Second Life: tutti hanno macchine più potenti, linea veloce e una dimestichezza con relazioni online rafforzatasi durante il lockdown. Le videocall sono diventate in fretta uno standard e la domanda è se, e quando, troveremo più comodo sostituirle con incontri tra avatar. Gli annunci che vengono fatti e ciò che spesso scrive la stampa danno l’idea di qualcosa di completamente nuovo, ma in realtà molte di queste idee sono già state esplorate negli anni, all’interno di videogame e piattaforme 3D.
Come definiresti il concetto attuale di metaverso?
Il metaverso oggi può essere pensato come un insieme di mondi virtuali 3D condivisi e immersivi, che comprende moltissime piattaforme, alcune delle quali sono già presenti da anni e sono diventate note solo in questi mesi, come Decentraland, The Sandbox, Roblox. E il discorso è oggi spesso legato alle blockchain e alle criptovalute: ogni metaverso ha un proprio token per gli acquisti di beni digitali, come oggetti, avatar, accessori, ma anche porzioni di terreno, per cui in seguito agli annunci di ottobre si è assistito alle impennate di valore ad esempio del Mana, la moneta di Decentraland, e del Sand, la moneta di The Sandbox, salvo poi avere brusche ricadute e in generale un andamento di valore altalenante. E ci sono molti altri mondi emergenti, legati anch’essi al mondo cripto, come RedFox (RFOX), Alien Worlds (TLM), Star Atlas (ATLAS), Ufo Gaming (UFO), The Nemesis, in un panorama in continua evoluzione dove blockchain, finanza, NFT e gaming si sovrappongono e mescolano.
Qual è il rapporto fra questi mondi e la rete?
Io penso che la rete sia in costante evoluzione, e come si è passati dal modello della prima Internet al modello del Web 2.0, con la nascita di servizi e piattaforme social, ora si sta progressivamente passando al Web 3.0. Non mi piacciono queste definizioni numeriche e nemmeno penso a salti netti nell’evoluzione, ma è per definire dei macro periodi nella storia della rete. Ora stiamo assistendo alla convergenza di tecnologie come Realtà Aumentata, realtà virtuale, blockchain, criptovalute, NFT, che promettono nuovi modi di vivere la rete, con nuove piattaforme affiancate a quelle presenti. È una fase iniziale, confusa e, al di là dei proclami delle Big Tech, merita di essere osservata.
Noti qualche differenza sostanziale tra gli ambienti che frequentavi quindici anni fa e quelli attuali?
Entrando negli attuali mondi virtuali non si trovano idee particolarmente nuove. C’è una tendenza ripetitiva alla ricostruzione della realtà, dei suoi spazi e delle sue dinamiche. Sono spesso mondi costruiti sull’estetica del videogame, ma poiché si tratta di tanti mondi diversi è difficile fare un ragionamento univoco. Si parla molto del possesso della terra, con il suo valore che varia in base alla vicinanza al centro come nel mercato immobiliare, ma nessuno può davvero prevedere quali dei vari mondi si popoleranno veramente e quali resteranno vuoti, come città costruite che poi nessuno abita. Al momento ci sono davvero pochissime persone online e ci si trova a vagare in grandi spazi vuoti. Assistiamo all’entrata delle aziende che costruiscono i loro mondi di marca, come Nike e Vans in Roblox, ad esempio, con ambienti basati sullo sport e i prodotti proposti agli avatar. In molti mondi virtuali di oggi entri se hai un digital wallet e il possesso di criptovalute sembra il modo per definire la tua identità.
Second Life invece com’era?
Nel 2005 era un mondo esotico, un’isola incontaminata e utopica, mentre l’attuale sviluppo parte già dichiaratamente legato al business, alle criptovalute, ad ambienti spesso pensati e sviluppati dalle Big Tech. È importante che il metaverso resti invece il più aperto possibile, lontano dal modello di iper ambienti centralizzati e gestiti da pochi, come sono stati i social. Per ora non vedo molta creatività nella costruzione dei mondi virtuali, ma davvero siamo solo all’inizio e, se ci sarà un seguito, ci sono tutte le competenze per creare spazi davvero interessanti. C’è già stato negli anni un dibattito sulla costruzione di luoghi a misura di avatar, in fondo è un problema di design, vedo soluzioni interessanti nelle costruzioni 3D di architetti sperimentali per ora non visitabili online ma decisamente avanti come immaginazione.
Gli avatar sono cambiati?
Non mi sembra che siano cambiati molto, ma in realtà non si può dare una risposta univoca perché in ogni ambiente sono disegnati in modo diverso. Si passa da avatar cartoonish ad avatar pixelati stile Minecraft, a tentativi di mappare il proprio volto reale su quello dell’avatar. Si sperimentano soluzioni ibride, come associare un box con la webcam live sopra il proprio avatar, quindi ci si incontra come avatar ma si parla come in una videocall. In Horizon, come in Spatial e nel mondo di Microsoft, gli avatar hanno solo la parte superiore del corpo. Certo che le gambe non servono per muoversi nel metaverso, ma questa rimozione della parte del corpo dalla vita in giù mi sembra portare anche ad altri possibili significati. Tutto il resto è invece lasciato al mercato, che sviluppa avatar sofisticati che vanno comprati come asset digitali. Resta aperto il problema di come muoversi con un unico avatar tra i vari mondi, ed è un problema che riguarda in realtà ogni altro bene digitale. Tecnicamente si parla di interoperabilità, e sarà un problema reale, quello di muoversi e trasportare le proprie cose da un mondo all’altro. Per ora si tratta ancora di singoli mondi chiusi su se stessi, molto lontani dall’idea di Internet che ci siamo costruiti come unico spazio dove navigare.
In che modo, secondo te, questi mondi possono ospitare e favorire progetti artistici?
Già durante il lockdown istituzioni, fiere e gallerie hanno cercato soluzioni alla chiusura degli spazi fisici, e abbiamo visto exhibit room, dibattiti in Instagram e Zoom, e mille altre forme di presenza in rete. Queste esperienze possono continuare anche in periodi di riapertura affiancandosi agli eventi e alle mostre reali, sperimentando nuove forme di partecipazione. Non è scontato che accada, non per tutto e tutti, ma potrebbero esserci situazioni in cui percepiamo più vantaggioso sfruttare spazi 3D immersivi rispetto ad altre forme. L’arte, con le sue esigenze espositive, relazioni spaziali tra opere e visitatore, questioni di dimensioni e disposizione delle opere, secondo me può essere uno dei settori coinvolti. Dobbiamo porci domande semplici e di base, del tipo: funziona meglio vedere le opere in un sito tradizionale o in una galleria virtuale? È più efficace seguire un dibattito in streaming o incontrarsi in una stanza con il proprio avatar e una webcam accesa e camminare insieme tra le opere di cui si parla? La contrapposizione non è tra realtà e virtualità, ovviamente se si è presenti a una mostra o a un evento il problema non si pone, ma dobbiamo sperimentare tra le possibili forme che assume il virtuale, scegliendo quelle più adatte.
Hai visto qualcosa di interessante negli ultimi mesi?
In Decentraland, ad esempio, da giugno 2021 Sotheby’s ha aperto una sede copia della sua sede fisica e a novembre ha organizzato l’asta di due lavori di Banksy. Sempre in Decentraland c’è stata la mostra Digital Embodiment di Marjan Moghaddam curata da Filippo Lorenzin e Serena Tabacchi, tra i fondatori del MOCDA, Museum Of Contemporary Digital Art. E ancora la mostra Travel Diary curata da Sonia Belfiore per la piattaforma newyorkese Snark.art, inaugurata con otto artisti italiani a marzo 2021.
In generale siamo nella fase dove fa ancora notizia in sé la mostra organizzata nel metaverso. Penso vada riannodata una storia di anni di esperienze diffuse sulla curatela di mostre online e la ricerca di forme espositive e collaborative nel web, dove la diffusione di spazi 3D di adesso costituisca uno sviluppo in continuità piuttosto che una news da bruciare in fretta.
E gli artisti cosa fanno?
Non vedo ancora una community di artisti che si aggrega per sperimentare nello specifico le potenzialità di questi ambienti, come è stato già all’inizio del XXI secolo con le primissime esperienze dei Neen, e poi in Second Life con gruppi come Second Front, o le esperienze nella Gallery A sull’isola di Odyssey, dove attorno al 2007 c’erano regolarmente mostre ed eventi e in cui sono nate le Synthetic Perfomances di Eva e Franco Mattes, per citarne una. Ora il panorama delle mostre dei mondi virtuali è dominato dagli NFT, ma qui si aprirebbe un altro lungo discorso…
Ti è venuta voglia di sperimentare di nuovo con i mondi virtuali? Hai qualche idea nel cassetto?
Sì, Marco Manray, il mio avatar di sempre, è già presente in alcuni di questi mondi e sta continuando a documentare cosa succede. In qualche modo il progetto di raccontare la nascita del metaverso, iniziato nel 2005 quando sono entrato per la prima volta in Second Life, è tornato attuale proprio per evidenziare una linea di sviluppo, una storia del metaverso che esiste. Le immagini che scattavo della nascita del metaverso, sia in Second Life, ma anche nel mondo virtuale cinese, o nelle prime esperienze di Mirror World precedenti a Google Earth, hanno assunto forse un valore storico a distanza di oltre quindici anni. Sto anche facendo lavori nuovi, mi incuriosisce ad esempio come sono state scelte alcune metafore in questi mondi emergenti. All’ingresso di Decentraland c’è un grosso gorgo nel quale tuffarsi per entrare. Durante i giorni di boom seguiti all’annuncio di Zuckerberg sono stato a girare un video alle persone che entravano per la prima volta nel metaverso, metaforicamente gettandosi nel gorgo, e mi sembra simbolico del momento attuale.
QUEL CONFINE MAGICO TRA FISICO E VIRTUALE. INTERVISTA AD AURIEA HARVEY
Auriea Harvey (Indianapolis, 1971) è un’artista americana che vive a Roma dal 2019. Pioniera della Net Art, ha fondato insieme a Michaël Samyn lo studio Tale of Tales, con cui ha creato per molti anni videogiochi ed esperienze interattive. Da alcuni anni produce simulazioni e sculture che collegano lo spazio fisico e quello digitale utilizzando la grafica, la stampa 3D e la realtà mista. Con lei abbiamo parlato di mondi virtuali, di NFT e del futuro di Internet.
Negli ultimi due anni abbiamo assistito a un grande ritorno di interesse nei confronti dei mondi virtuali, tendenza favorita dal lancio di piattaforme di realtà virtuale migliori e più accessibili, ma anche dai lockdown imposti dalla pandemia. La nuova ondata è incentrata sulla parola “metaverso”, termine di origine letteraria che viene utilizzato da aziende e sviluppatori per descrivere una specie di nuova versione di Internet, immersiva e incentrata sulle realtà estese. Qual è la tua opinione su questa idea del metaverso? Trovi delle differenze sostanziali rispetto ad altri mondi virtuali, del passato e del presente?
Negli scorsi decenni ci sono state numerose esperienze di questo tipo. Penso a Second Life, ma anche, prima ancora, ad Alpha World, solo per fare gli esempi più noti. Poi c’è il mondo dei videogame, che è quello in cui ho trascorso tredici anni della mia vita, costruendo universi alternativi per i giocatori. Non so se le persone che stanno costruendo il nuovo “metaverso” siano coscienti di quello che è stato fatto in passato. Credo che, per controbilanciare l’hype, ci sia bisogno di un momento di riflessione, di guardarci indietro. Questo aiuterebbe i designer a costruire esperienze migliori per le persone. Ad esempio, al momento quello che mi sembra mancare è l’immaginazione. Quando le persone pensano al metaverso, spesso si riferiscono alla sovrapposizione di un livello virtuale di realtà al di sopra della realtà fisica, un livello che le assomiglia, che la riproduce. È questo che aziende come Facebook/Meta stanno facendo: avrai un avatar che ti somiglia e una casa virtuale costruita come il tuo appartamento… Se ci fai caso, molte esperienze in VR iniziano allo stesso modo: sei in cima a una collina, dentro una villa, le case si somigliano tutte. Il metaverso come lo si descrive oggi mi sembra questo: la ricreazione di cose già esistenti. E viene da chiedersi: perché?
Parlando di videogiochi, quale pensi sia il ruolo del gaming e dell’intrattenimento digitale nella costruzione del metaverso?
Se i progettisti guardassero di più al mondo dei videogame, capirebbero quali sono le esperienze che le persone stanno già utilizzando, con cosa amano giocare, in quali mondi amano stare. Queste esperienze non somigliano per niente alla vita quotidiana. I videogame designer utilizzano un approccio artistico e la fiction per creare una situazione inedita. Questo manca completamente in luoghi come Second Life: se dai alle persone gli strumenti per costruire cose brutte, finiranno per costruire un mondo altrettanto brutto. La maggior parte dei videogame invece ruota attorno all’idea di spingere le persone a costruire qualcosa di fantastico, all’interno di un mondo che è stato immaginato e “scritto”.
Questo non accade nei cosiddetti metaversi?
No. Quando entri in uno di questi mondi virtuali sei portato a pensare che hai potere e agentività, ma in realtà accade spesso l’opposto. I videogiochi sono delle esperienze costruite da qualcuno intorno all’idea che ci sia qualcosa di interessante da vedere e da vivere, e che il giocatore possa farne parte. Nei metaversi che ho visto, invece, non succede niente, ci sono solo dei tool a disposizione. È per questo che al momento sono pessimista nei confronti del metaverso: quello che vedo in costruzione sono perlopiù mondi banali, privi di immaginazione, tutti incentrati sulla cultura occidentale e perlopiù brutti. Perché qualcuno dovrebbe scegliere di abitarli? Piuttosto, preferisco pensare che Internet sia già un metaverso. Perciò mi chiedo: perché non ci occupiamo di più di questo ambiente, quello in cui siamo già immersi ogni giorno?
Recentemente ho ascoltato un’intervista a Jaron Lanier, che viene considerato uno dei padri della realtà virtuale. Diceva che secondo lui la cosa migliore della VR consiste nel fatto che, quando spegni il visore e torni al mondo fisico, sei in grado di apprezzarlo di più. Riscopri la ricchezza del mondo e delle esperienze di interazione tra esseri umani. Cosa ne pensi?
La trovo un’idea interessante. Quando progettavamo videogame dicevamo sempre che l’obiettivo era quello di realizzare giochi che potenziassero la vita, non che la rimpiazzassero. Molti giochi sono pensati per generare dipendenza, per invitarti a cliccare sempre di più. Invece noi dicevamo: “Usa il nostro gioco per 5 minuti, poi torna alla tua giornata”. Magari puoi portare una parte di quell’esperienza nella tua vita quotidiana, diventare un po’ più gentile, oppure pensare al mondo come a un luogo più magico. Questo era il nostro obiettivo come game designer. Un’altra questione cruciale che riguarda il metaverso è quella dei protocolli. Non possiamo aspettarci che il metaverso di Facebook semplicemente accada, dovranno mettere a punto dei nuovi protocolli; l’accesso a questi protocolli sarà importantissimo. La speranza, naturalmente, è che siano protocolli aperti e non gestiti da una sola corporation.
Il Metaverso di Neal Stephenson era sostanzialmente una distopia: un mondo virtuale scintillante costruito in opposizione a un mondo “reale” ormai diventato inabitabile. Pensi che stia succedendo una cosa simile, che sia una strategia di fuga da un mondo al collasso?
La pandemia – ma anche il global warming – ha probabilmente svolto un ruolo importante in questo senso, e forse molte persone hanno davvero intravisto questa possibilità. Una cosa che ho imparato facendo videogiochi è che l’80% del gioco si svolge nella testa delle persone. Come designer io posso guidarle, ma loro spesso vedono cose che non ci sono, o fanno congetture sul mio lavoro. In fondo, i ricordi personali sono incredibilmente più importanti di quello che io ho effettivamente messo nel gioco. Il ruolo del designer, il più delle volte, è quello di guidare l’immaginazione delle persone in una direzione o nell’altra. Non puoi controllare come reagiranno a un certo mondo virtuale, ma puoi provare ad anticipare le reazioni, in modo da spingerli in diverse direzioni. Si tratta di un potere molto grande, perciò penso che la costruzione del metaverso diventerà soprattutto una battaglia per la conquista delle menti, dell’interno delle persone. In questo senso, quel che dice Jaron Lanier è molto importante: vogliamo cambiare la mente delle persone in modo che passino più tempo nei mondi virtuali oppure vogliamo aiutarle a comprendere meglio il mondo fuori? Forse una delle opzioni è più salutare dell’altra. Ma la domanda vera è: le persone adotteranno questa tecnologia come è successo con Internet? Per Internet la chiave per l’espansione sono stati i telefoni cellulari. Ora le aziende stanno cercando di capire quale device svolgerà lo stesso ruolo per il metaverso.
Ho visto che hai iniziato a sperimentare con gli NFT, realizzando e vendendo opere sulle piattaforme cripto. In che modo pensi si colleghi con il metaverso? Ad esempio, a volte si pensa a esso come a uno spazio espositivo per l’arte che nasce digitale…
Gli NFT spesso sono collegati a spazi espositivi virtuali e naturalmente, essendo io stessa una progettista di mondi virtuali, è una cosa che seguo e che mi interessa. Non mi piace invece particolarmente l’idea che le persone vengano pagate per giocare in alcuni di questi mondi, come succede per esempio in Axie Infinity, un gioco basato sugli NFT e sulla blockchain. Quello che trovo interessante è la nozione che esistano oggetti collezionabili che insieme possano creare un mondo. Tuttavia, al momento non ho una visione completa; come molti altri artisti, considero questa una fase sperimentale.
Qual è la tua esperienza con gli NFT?
Finora è stata positiva, ma è una tecnologia ancora in fase di sviluppo e può prendere tante direzioni. È come la parabola dei sei uomini ciechi e l’elefante: ognuno tocca una parte diversa dell’elefante e si fa un’idea diversa sull’aspetto dell’animale. Gli NFT sono così al momento: le persone hanno idee molto diverse su cosa questo mondo sia e su cosa possa diventare. Per quanto mi riguarda è stato un modo per far accettare, nell’immaginario collettivo, l’idea che gli oggetti digitali abbiano un valore intrinseco. È una cosa che già accadeva nei videogiochi, ma non era davvero considerata un’opzione per altri tipi di output creativi. Per me, che ho prodotto arte digitale per tutta la vita, si tratta di un territorio interessante e inesplorato, che vale la pena di sperimentare.
Qual è l’aspetto che trovi più rilevante?
Mi piace l’idea che un’opera d’arte possa essere apprezzata su tanti livelli diversi e anche il fatto che la distribuzione sia cambiata. All’inizio del mio lavoro con i videogame, intorno al 2003, era necessario mettere tutto su un cd e vendere nei negozi, non c’era la possibilità di inserire i dati della carta di credito e semplicemente scaricare il gioco. Nei primi anni sembrava una cosa strana, ma poi è diventata la normalità. Credo che accadrà anche per gli NFT. Testare queste nuove modalità oggi ci aiuta a riflettere su cosa potrà significare in futuro, partecipando a un’ampia conversazione sull’arte e le sue modalità di distribuzione. Avere più modalità per esporre e vendere le opere d’arte è una grande opportunità ed è una cosa molto liberatoria. In un certo senso mi sembra incredibile che stia accadendo. Improvvisamente ci si può dedicare davvero a realizzare le opere che desiderano. Per la gran parte delle persone coinvolte nel settore della new media art questo non era mai successo prima. Si sopravviveva tramite fondi pubblici, insegnamento e impieghi paralleli in grandi aziende.
Che tipo di collezionisti comprano il tuo lavoro?
Sono persone di ogni genere. Molti artisti collezionano altri artisti e si supportano vicendevolmente. D’altra parte, i più grandi estimatori dell’arte sono gli artisti stessi. Poi ci sono molte fondazioni che stanno collezionando in questo momento. E ovviamente chi ha tanta criptovaluta e che per vari motivi decide di investire in NFT. Alcuni sono realmente interessati al lavoro – e sono quelli che preferisco, ovviamente –, altri meno, ma nella maggior parte dei casi i miei NFT non vengono rivenduti e la cosa mi fa piacere. Sono lusingata dal fatto che molti stiano semplicemente investendo su di me perché pensano che il mio lavoro sia interessante. La prima volta che ho letto degli NFT ero spaventata: scarsità digitale, che cosa significa? Ma in realtà tramite questo sistema le opere possono avere il meglio di entrambi i mondi: possono essere aperte a tutti ma allo stesso tempo scarse.
Il mondo dell’arte come sta reagendo?
Stiamo assistendo a una moltiplicazione dei “mondi dell’arte”. Non ce n’è mai stato uno solo, ma ora l’esistenza di tanti mondi diversi che convivono è nettamente più visibile. Non c’è più bisogno di conformarsi sempre a un’idea di opera d’arte museale: ci sono tanti livelli di produzione e apprezzamento dell’arte. In luoghi diversi, forme diverse, per persone diverse e per ragioni diverse. Penso anche che i new media artist abbiano prodotto alcuni dei lavori migliori della loro vita in questo periodo, perché questa nuova scena, con tutte le sue opportunità, è stata una fonte di grande motivazione. Non solo per i soldi, ma per l’apprezzamento, il riconoscimento, il permesso di fare finalmente quello che avrebbero voluto fare, con i fondi necessari e un pubblico interessato. Non avvertivo così tanta energia nel mondo della new media art dai tempi del Web 1.0, onestamente. Allo stesso tempo, se abbiamo imparato qualcosa dal passato, dovremmo essere preoccupati di molte cose per il futuro: soprattutto per quanto riguarda la proprietà dei protocolli e il potere eccessivo che le corporation potranno avere. Mi piaceva pensare al mondo cripto come qualcosa che avrebbe affossato le corporation, ma ora so che si tratta di una visione ingenua; dobbiamo gestire il problema degli interessi delle grandi aziende a livello politico, ora più di prima.
Da un punto di vista artistico, hai visto qualcosa di nuovo succedere nei mondi virtuali? O magari c’è qualcosa che ti piacerebbe sperimentare nel futuro in questo contesto?
Finora non ho visto niente che possa essere considerato davvero nuovo, a parte la connessione con la blockchain. La verità è che i videogiochi sono sempre stati un passo avanti. La mia speranza per il futuro è che i creatori indipendenti sfruttino la grande libertà che il digitale offre, e che questo porti alla creazione di qualcosa di nuovo. L’idea di esplorare e sfumare i confini tra il fisico e il virtuale mi sembra l’area di sperimentazione più interessante. Durante le nostre giornate scivoliamo continuamente dentro e fuori dal mondo digitale, abitiamo a cavallo tra le due dimensioni. È anche quello che faccio con le mie sculture: porto nel mondo fisico oggetti originariamente virtuali e, allo stesso tempo, sposto i nostri corpi negli ambienti sintetici. Artisticamente parlando, sono interessata a rendere le persone più consapevoli di dove questo confine tra fisico e virtuale si dissolve, e di come possa essere bello e intenso, quasi un’esperienza religiosa. Non sono un’attivista, lavoro con le emozioni e con lo spettacolo, mi interessa quello che succede dentro le persone. Ed è qualcosa che non dobbiamo mai dimenticare, anche nel mondo degli NFT: la parte umana.
‒ Valentina Tanni
Versione aggiornata dell’articolo pubblicato su Artribune Magazine #64
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