L’Intelligenza Artificiale sa fare meglio degli artisti?
Uno degli argomenti più discussi di oggi è l’incapacità dell’Intelligenza Artificiale di provare dolore, di sentire e di tradurlo nel “fare”, arte in questo caso. Ma siamo proprio sicuri che gli artisti contemporanei ci riescano ancora?
“Che cos’è il disegno? Come lo si impara? È lavorare attraverso una muraglia invisibile in ferro che sembra sorgere tra quanto si sente e quanto uno sa fare. Come attraversare quel muro – visto che sbatterci contro è inutile? Bisogna minare subdolamente il muro, scavandovi sotto lentamente e pazientemente, a parer mio” (Vincent van Gogh, Domenica pomeriggio [L’Aja, ottobre 1882], in Lettere a Theo, a cura di Massimo Cescon, Guanda, Milano 2018, p. 188). Altre traduzioni riportano per esempio “bisogna minare questo muro e attraversarlo con la lima” (in Antonin Artaud, Van Gogh il suicidato della società, a cura di Paule Thévenin, Adelphi, Milano 2000, p. 40).
Ora: può l’AI attraversare questo muro? Evidentemente no; certamente no. Eppure, indagare le ragioni per le quali ‘non può’ presenta qualche motivo di interesse. È facile liquidare l’AI dicendo che “è stupida”, “non sente”, “non soffre” (Nick Cave): eppure, è un fatto che le AI non solo possono fare, creare, costruire, realizzare opere d’arte – ma lo stanno già facendo.
Ci si può consolare, come molti del resto fanno (anche io), dicendo e dicendosi “vabbé ma non sono vere opere d’arte”, “la creatività umana è proprio un’altra cosa”, ecc. ecc. Ma questo vuol dire non soffermarsi neanche per un istante a considerare come è fatta la stragrande maggioranza dell’arte prodotta diciamo nell’ultimo quarantennio (considerando quella esposta nei musei e nelle fiere, venduta dalle mega gallerie e dalle case d’asta). A considerare, per esempio, che sotto alcuni punti di vista certe opere sembrano decisamente anticipare il processo che porta l’AI a produrre l’opera d’arte: anticiparne cioè non solo l’aspetto, ma proprio il funzionamento interno.
AI E ARTE CONTEMPORANEA
L’AI di sicuro non è interessata per niente a minare e attraversare il muro di ferro (anche perché sta dall’altra parte, oppure, peggio ancora, essa è il muro di ferro); ma non mi pare onestamente che molte delle opere così celebrate e osannate negli ultimi decenni abbiano mai minimamente tentato di compiere questo attraversamento, o si siano anche solo dedicate a percepire quel muro di ferro. Per non parlare poi dei due estremi di cui parla van Gogh tra ciò che “si sente” e ciò che “si può/si sa fare”, estremi che il muro divide – e che sono di fatto i poli che definiscono, e tra cui si muove, l’opera…
Stesso discorso, come al solito, possiamo farlo per la musica e per la letteratura: siamo proprio sicuri che gran parte dell’attuale pop non potrebbe essere fatto molto meglio da un software, da una macchina (o, se è per questo, che non sia già ‒ tranne forse che per il margine dell’interpretazione ‒ fatto da un software, da una macchina)? Siamo proprio sicuri che molti dei libri in classifica non sarebbero scritti molto meglio (e più in fretta) dall’AI, sempre per come sono fatti? ((Il “come è fatta” dell’opera è l’elemento centrale; e così, il come-si-comporta…)) Cambiando il punto di vista, le cose non sono quindi così chiare e semplici come sembravano magari all’inizio. Ci torneremo.
SOCIETÀ DI OGGI E ANDROIDI
Per Philip K. Dick, che a questo tema ha dedicato praticamente l’intera sua opera, e in particolare la sua riflessione a partire dalla fine degli Anni Sessanta e dall’inizio degli Anni Settanta (in singolare coincidenza temporale con quella, condotta da tutt’altra angolazione, di Pier Paolo Pasolini sulla “mutazione antropologica”)…), l’androidizzazione in atto nella società “è la riduzione degli umani a mero utilizzo: uomini resi macchine, per servire uno scopo che, per quanto ‘buono’ in senso astratto, ha adoperato per essere portato a compimento quello che io considero il peggior male immaginabile: prendere quello che era un uomo libero, in grado di ridere e piangere, commettere errori e indulgere nella stupidità, e imporgli una restrizione che lo limita, malgrado quello che lui possa immaginare o pensare, al conseguimento di uno scopo che esula dal suo personale destino, per quanto minuscolo. Come se, per così dire, la storia lo avesse trasformato nel suo strumento” (L’androide e l’umano, ne La ragazza dai capelli scuri, a cura di Carlo Pagetti, Fanucci Editore, Roma 2014, p. 136). “Diventare quello che io definisco, in mancanza di un termine migliore, un androide, significa ciò che ho detto: permettere a sé stessi di diventare un mezzo, oppure essere costretti, manipolati, resi un mezzo inconsapevolmente o contro la propria volontà. Il risultato è lo stesso. (…) è proprio quando la reazione di una certa persona a una certa situazione può essere prevista con precisione scientifica che si aprono i cancelli per la produzione su larga scala della forma di vita androide” (ivi, p. 141).
Direi che ci siamo: abbiamo quasi pienamente raggiunto la “forma di vita androide”, è dappertutto attorno a noi. Si rivela nel modo per esempio in cui la maggior parte delle persone – se ci avete fatto caso – non ascolta più veramente quello che gli o le si dice, ma ascolta ciò che ha in testa, il proprio riflesso mentale, che non ha ovviamente nulla a che vedere con l’espressione altrui; oppure, si rivela nel modo in cui tutti, ma proprio tutti – anche e soprattutto quelli che dovrebbero essere gli “intellettuali” – si sforzano di essere ‘comunicativi’, ‘accattivanti’, ‘pop’, di piacere e di adattare ogni discorso a questo tentativo continuo, inesausto di piacere; o nel modo in cui la gente (specie se si trova davanti a un pubblico) si adatta a dire e a fare sempre la cosa giusta, la cosa corretta, e anche quando apparentemente sta deviando o trasgredendo ti rimane addosso e in testa la sensazione che quella deviazione e quella trasgressione rientrino a loro volta nel codice, che siano ampiamente previste, che siano anch’esse ‘giuste’ e ‘corrette’. Il “mezzo per servire uno scopo” intravisto e previsto da Philip Dick è ormai ovunque attorno, e dentro, di noi.
Christian Caliandro
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