Gran parte del dibattito interessante che si sta sviluppando sulla capacità delle AI di generare opere d’arte viene condotto principalmente da scrittori. Non è un caso, dal momento che questi software (Midjourney, Dall-E, Stable Diffusion, Stability AI, ecc. ecc.) funzionano ricombinando un archivio sterminato di immagini e seguendo un set di istruzioni testuali fornite dall’autore/prompter, cioè da chi vuole ottenere l’immagine finale: “Questi software non sono androidi antropomorfi con un’intelligenza e una personalità propria, ma modelli algoritmici basati su enormi quantità di dati creati dagli umani, su cui lavorano su base statistica allo scopo di rispondere con successo alle nostre richieste. Se ad esempio voglio l’immagine di un gattino, Midjourney, che ha ‘mangiato’ milioni di foto di gattini, inventerà un’immagine di un qualche gattino nello stile desiderato. Gli ingredienti che rendono possibile la magia sono essenzialmente il materiale di partenza (foto di gatti), il modo in cui viene catalogato (‘questa immagine è una foto di un gatto che soffia’) e la potenza di calcolo della macchina. (…) Sono proprio queste due caratteristiche, i training set e la loro classificazione, che rendono questi programmi diversi. Midjourney ad esempio è stato allenato con moltissime opere d’arte e permette risultati più originali, a discapito del realismo, che è il punto forte, invece, di Dall-e 2, che è meno fantasioso (direi che è mainstream) ma molto più preciso” (Francesco D’Isa, La rivoluzione degli algoritmi nel mondo dell’arte, “Il Tascabile”, 21 luglio 2022).
ARTE E INTELLIGENZA ARTIFICIALE
È dunque il linguaggio, il linguaggio scritto, a guidare la creazione delle ‘nuove’ immagini: i pattern di scrittura, le idee “scritte” e “letterarie” (più il testo è preciso, infatti, più l’immagine finale si avvicinerà a ciò che l’autore aveva in mente) sono in grado di determinare il modo in cui l’AI gestisce la “memoria” di immagini a disposizione, ma proprio di determinare il visivo, la costruzione del visivo, in un modo forse mai conosciuto prima.
Premetto che mi trovo in un campo di cui non so praticamente nulla, ma mi sembra che questa faccenda ponga alcune questioni fondamentali che riguardano l’arte oggi. Vanni Santoni per esempio si concentra sull’estrema rapidità del processo di produzione di queste immagini, e sull’operazione del prompting come una sorta di “turboarte”: “… generare queste immagini resta maledettamente facile e – forse soprattutto – maledettamente rapido, cosa che permette di lavorare ‘in modalità fotografo’; come quello può scattare mille foto e poi scegliere le dieci migliori, così il prompter può generare mille immagini in pochissimo tempo e scegliere le migliori. Difficile, quindi, parlare di ‘arte’ con la coscienza (umana) pulita; pure, oggi, non c’è dubbio che alcuni fotografi siano grandi artisti e moltissimi altri no: lo sviluppo e la diffusione della pratica ha portato a un affinamento del giudizio, e oggi chiunque sa bene che far fotografie non è solo ‘premere un bottone’, per quanto senza dubbio premere quel bottone davanti a un volto o a una casa produrrà un ritratto o la foto di una casa. (…) (Quella di Midjourney è) Turboarte, se vogliamo; arte frutto di saccheggio, magari; ma comunque arte, almeno secondo ciò che si intende, oggi, col termine” (Vanni Santoni, Il mostro è qui per rimanere. Alcune considerazioni su Midjourney e e le AI “text to image”, “L’Indiscreto”, 7 dicembre 2022).
Ecco, mi sembra che questo sia il punto centrale: che cosa si intende, oggi, col termine arte? Che cos’è, oggi, l’opera d’arte?
AI, IMMAGINI E DATABASE
Ovviamente, questi “laboratori” hanno cominciato ben presto a essere denunciati da archivi istituzionali e da artisti per il loro uso non autorizzato dei database di immagini. Il 16 gennaio, la fumettista Sarah Andersen, l’artista digitale Kelly McKernan e l’illustratrice Karla Ortiz hanno citato in giudizio Stability AI, Midjourney e DeviantArt per violazione del copyright (Giulia Giaume, Tre artiste fanno causa ai generatori di arte che usano l’Intelligenza Artificiale, “Artribune”, 29 gennaio 2023). È utile riportare un passaggio della dichiarazione del loro avvocato, Matthew Butterick, per il quale lo scopo principale della querela sarebbe evitare che strumenti artistici come Stable Diffusion “inondino il mercato con un numero illimitato di immagini contraffatte che infliggerà danni permanenti al mercato dell’arte e degli artisti”. Ecco, il termine-concetto di “immagini contraffatte” mi sembra molto interessante – e non so perché, ma quando l’ho letto mi ha subito richiamato alla mente la nozione delle “finte sculture” di Pino Pascali… Altrettanto interessante è la piccata replica del portavoce di Stability AI: la società infatti prende “queste questioni sul serio, e chiunque creda che questo sia un uso corretto non capisce la tecnologia e fraintende la legge”. A parte il fatto che, ovviamente, l’eventuale incomprensione e fraintendimento dovranno essere acclarati da un giudice, anche qui: che vuol dire esattamente “prendere sul serio queste questioni”? Da quale punto di vista? E qual è esattamente il punto di vista di una società che si occupa di Intelligenza Artificiale sull’uso corretto delle immagini/opere altrui, e sull’arte in generale?
Credo che a questo punto sia necessario, e inevitabile, convocare il massimo esperto di rapporto tra umano e androide: Philip K. Dick. Il quale, a metà Anni Settanta, scriveva per esempio: “L’androidizzazione richiede obbedienza. E, soprattutto, prevedibilità. È proprio quando la reazione di una certa persona a una certa situazione può essere prevista con precisione scientifica che si aprono i cancelli per la produzione su larga scala della forma di vita androide. A che serve una torcia elettrica se la lampadina si accende solo di tanto in tanto quando premi il pulsante? Qualunque macchina deve funzionare sempre, dev’essere affidabile. L’androide, come ogni altra macchina, deve agire a comando” (Philip K. Dick, L’androide e l’umano, ne La ragazza dai capelli scuri, Fanucci 2014, p. 141).Questo passaggio si inseriva, naturalmente, nella sua più ampia riflessione sull’androidizzazione della società, portata avanti nei romanzi (da Ma gli androidi sognano pecore elettriche?, 1968 a Ubik, 1969, da L’androide Abramo Lincoln, 1972, a Un oscuro scrutare, 1977), nei saggi e negli appunti. Oggi, l’artista e teorica Hito Steyerl parla per esempio di “stupidità artificiale”. E, come sottolinea Giulia Giaume nel suo articolo, i modelli AI non sono propriamente in grado di ‘memorizzare’ le immagini, ma immagazzinano le loro rappresentazioni matematiche, a partire dalle quali creano le nuove immagini. (Dunque, l’intero processo prevede tutta una serie di traduzioni: dalle immagini ai dati, dal testo all’immagine, ecc. ecc.).
IL PUNTO DI VISTA DI NICK CAVE
Per il momento, la parola definitiva sulla questione l’ha forse detta il solito Nick Cave. Quando infatti un suo fan gli ha inviato una canzone composta da ChatGPT “nello stile di Nick Cave”, gli ha risposto sul suo blog che faceva schifo e che si trattava di “replication as travesty”, di replica come caricatura: “Scrivere una buona canzone non è imitazione, o ripetizione, o pastiche: è l’opposto. È un atto di auto-uccisione che distrugge tutto ciò che uno ha faticosamente prodotto nel passato. Sono proprio queste partenze pericolose e mozzafiato che catapultano l’artista oltre i limiti di ciò che lui o lei riconosce come il proprio sé. Questo è parte dell’autentico sforzo creativo che precede l’invenzione di un testo unico, di valore; è il confronto estenuante con la propria vulnerabilità, con la propria pericolosità, con la propria piccolezza, contro il senso di scoperta improvvisa e shoccante; è l’atto artistico salvifico che agita il cuore dell’ascoltatore, e in cui l’ascoltatore riconosce nel lavorio interno della canzone il proprio stesso sangue, la propria stessa lotta, la propria stessa sofferenza”. Dunque, “le canzoni sorgono dalla sofferenza; voglio dire che esse vengono fuori dallo sforzo interno, complesso, umano della creazione e, beh, per quanto ne so io gli algoritmi non sentono. I dati non soffrono.” (Nick Cave, “The Red Hand Files”, issue #218, January 2023).
Christian Caliandro
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