Arte e intelligenza artificiale. Una storia che inizia negli Anni Cinquanta

Oggi la discussione su intelligenza artificiale e creatività è letteralmente esplosa. Nel mondo dell’arte, tuttavia, si ragiona sul rapporto tra uomo e macchina sin dagli Anni Cinquanta del secolo scorso

Nel 1953, l’artista, psicologo e ingegnere inglese Gordon Pask progettò una macchina chiamata Musicolour. Si trattava di un sistema computerizzato in grado di produrre uno spettacolo luminoso in risposta a degli stimoli sonori. Sul palco, il Musicolour poteva entrare in dialogo con un pianista, ad esempio, reagendo in tempo reale alla melodia suonata. Molti lodarono l’aspetto multimediale dello spettacolo, ma l’attenzione di Pask era diretta altrove: “…l’aspetto interessante di Musicolour non era la sinestesia,” scriverà qualche anno più tardi, “ma la capacità di apprendimento della macchina. Con un design adeguato e una scelta felice del vocabolario visivo, l’esecutore (influenzato dalla visualizzazione) poteva essere coinvolto in una stretta interazione con il sistema. Egli addestrava la macchina e questa giocava con lui. In questo senso, il sistema agiva come un’estensione dell’esecutore, con il quale poteva cooperare per ottenere effetti che non avrebbe potuto ottenere da solo”.

Lorem, live at Lunchmeat, Prague. Photo Jakub Dolezal

Lorem, live at Lunchmeat, Prague. Photo Jakub Dolezal

ARTE E INTELLIGENZA ARTIFICIALE. TRA DIALOGO E RIVALITÀ

Negli Anni Cinquanta del XX secolo, dunque, il computer già veniva percepito come un possibile partner creativo, una forma di vita artificiale con cui stabilire un dialogo volto a produrre effetti altrimenti impossibili. Un approccio, questo, che verrà adottato anche da molti altri autori nei decenni successivi, primo fra tutti Harold Cohen, pioniere assoluto dell’uso artistico dell’intelligenza artificiale, che, a proposito del suo rapporto con Aaron, suo alter-ego digitale dagli Anni Settanta del Novecento agli Anni Dieci del nostro secolo, scriveva: “La creatività non risiede né nel programmatore né nel programma, ma nel dialogo tra programma e programmatore”.
Quest’idea di collaborazione con la macchina, un tema che gli artisti indagano da più di settant’anni, sarebbe tuttavia passata presto in secondo piano, soppiantata da una sempre più diffusa retorica della “sostituzione”. Nei decenni successivi, infatti, quando le prestazioni dei computer si faranno più efficaci e sorprendenti, le macchine verranno percepite sempre più spesso come entità rivali: da un lato vogliamo modellarle a nostra immagine e somiglianza, dall’altro siamo terrorizzati dall’idea di riuscirci, creando forme di intelligenza in grado di surclassarci e minacciare la nostra stessa esistenza. È attorno a questa strana dicotomia – una continua oscillazione tra fascinazione e terrore – che si articola ancora oggi il dibattito sull’intelligenza artificiale.

Carola Bonfili, Destabilizing a Young Ground, 2019, still, video CGI, dimensioni variabili, progetto grafico di Imago, progetto audio di Matteo Nasini. Prodotto da Fonds cantonal d’art contemporain, Genève

Carola Bonfili, Destabilizing a Young Ground, 2019, still, video CGI, dimensioni variabili, progetto grafico di Imago, progetto audio di Matteo Nasini. Prodotto da Fonds cantonal d’art contemporain, Genève

L’INTELLIGENZA ARTIFICIALE OGGI. PERCHÉ NON È UNA MINACCIA

Un dibattito che si è fatto sempre più intenso nell’ultimo anno, sospinto dalla comparsa di una serie di applicazioni accessibili al pubblico e facili da utilizzare: software TTI (text-to-image) come DALL·E, Midjourney e Stable Diffusion e chatbot come ChatGPT e Google Bard. La capacità che questi sistemi hanno di produrre contenuti di buona qualità in maniera automatica e con un input umano minimale (non senza errori e approssimazioni), ha riacceso l’eterna discussione sul ruolo dell’autore e sulla funzione dell’opera d’arte nella società. Non dovremmo dimenticare, tuttavia, che al netto delle questioni legali ed economiche che giustamente preoccupano molte categorie di lavoratori del settore creativo, nessuno di questi sistemi, per quanto “autonomo”, è in grado di porre una questione davvero nuova agli artisti. Da oltre un secolo, infatti, l’arte si è svincolata da ogni dogma: ha rivendicato la sua libertà di ignorare la tecnica, sottovalutare la manualità, superare il genio individuale, persino abbandonare completamente il mondo della materia. Gli artisti hanno lavorato in maniera anonima, hanno creato esperienze effimere, hanno esplorato il silenzio e il vuoto, hanno seguito istruzioni, si sono abbandonati al caso. Hanno persino smesso di fare arte, in nome dell’arte. In un tale contesto, ne consegue, nessuna tecnologia può sperare di assumere un carattere rivoluzionario: in quanto modalità espressiva e comunicativa umana, l’arte continuerà ad evolversi secondo modalità impreviste e organiche (inglobando anche la tecnologia, quando necessario).
Non dobbiamo pensare, tuttavia, che la diffusione di massa dei sistemi di intelligenza artificiale non avrà conseguenze a livello culturale ed estetico: come scriveva lo storico americano Melvin Kranzberg negli Anni Ottanta, “la tecnologia non è buona né cattiva; ma non è neanche neutrale”. Questo significa che, al di là delle scelte individuali, l’influenza delle innovazioni tecnologiche è di carattere sistemico: la sola esistenza di determinati strumenti cambia la percezione del mondo, estende il senso della possibilità, influisce sulle strutture sociali ed economiche, modifica il senso estetico e il senso comune. Tutti questi cambiamenti, nel loro complesso, si rifletteranno senza dubbio nell’arte delle generazioni a venire, secondo modalità che sono ancora difficili da prevedere.

Carola Bonfili, 3412 Kafka, 2017, video still, 6’30”, VR, video CGI, progetto grafico di Imago, progetto audio di Francesco Fonassi. Courtesy Fondazione smART

Carola Bonfili, 3412 Kafka, 2017, video still, 6’30”, VR, video CGI, progetto grafico di Imago, progetto audio di Francesco Fonassi. Courtesy Fondazione smART

L’INTELLIGENZA ARTIFICIALE NELLE ARTI VISIVE

Guardando ai progetti artistici di oggi, vediamo che gli approcci al machine learning da parte degli artisti, inizialmente molto simili soprattutto se osserviamo il periodo 2017-2020, dominato dall’uso delle reti GAN (Generative Adversarial Networks) e incentrato su un’estetica simil-surrealista, si stanno diversificando. Molti autori svolgono una ricerca, quanto mai necessaria, che scava dietro le quinte di questa tecnologia, mettendo a nudo i meccanismi nascosti e le implicazioni politiche e sociali. Pensiamo ad esempio al lavoro di artisti come Trevor Paglen (Stati Uniti, 1974), che evidenzia i profondi bias contenuti nei dataset utilizzati per addestrare le reti neurali; ma anche all’opera di Hito Steyerl (Monaco di Baviera, 1966), che pone continuamente in discussione la presunta intelligenza di questi sistemi attraverso una narrazione in bilico tra cronaca e fantascienza. Sempre sul versante critico, ci sono anche artisti che concentrano la propria attenzione non sulla tecnologia in sé quanto piuttosto sull’aspetto umano: come accogliamo questi strumenti, come li utilizziamo nella vita quotidiana e in che modo ci cambiano? È quello che fa ad esempio Lauren Lee McCarthy con progetti come Lauren, in cui un essere umano si sostituisce allo smart speaker casalingo fingendo di essere un’AI, oppure in installazioni come Unlearning Language. In quest’opera, realizzata in collaborazione con Kyle McDonald (Irlanda, 1990) e presentata di recente in Giappone allo Yamaguchi Center for Arts and Media, gli artisti utilizzano un sistema di intelligenza artificiale per spingere i partecipanti a “nascondersi” dalle macchine, cercando modalità di comunicazione interpersonale non comprensibili dai sistemi di sorveglianza digitale.

Lorem, Distrust Everything, still. Courtesy of the artist

Lorem, Distrust Everything, still. Courtesy of the artist

ARTE E AI: TRA SUONI E ALLUCINAZIONI

In ambito sonoro, vale la pena di citare la ricerca pluriennale di Holly Herndon (Johnson City, 1980) che, dopo aver usato le reti neurali per produrre voci aliene da usare nei dischi, ha usato l’AI per creare un deepfake vocale personalizzato: attraverso il progetto Holly+ la voce (e l’identità) dell’artista diventano una risorsa open-source, gestita da una DAO, nel contesto di un esperimento estremo di disseminazione identitaria. “I deepfake vocali sono destinati a rimanere”, spiega Herndon, “è necessario trovare un equilibrio tra proteggere gli artisti e incoraggiare le persone a sperimentare con una tecnologia nuova ed entusiasmante. La voce è intrinsecamente comunitaria, viene appresa attraverso la mimesi e il linguaggio, e interpretata da individui”.
Le infinite possibilità combinatorie che l’AI introduce, infine, rappresentano un terreno di sperimentazione ideale per gli artisti interessati a esplorare i territori del sogno, della visione e dell’immaginazione. Roberto Fassone (Savigliano, 1986), ad esempio, ha addestrato un modello linguistico con centinaia di trip report, ossia resoconti di esperienze con sostanze psichedeliche. Nella sua opera, che si compone di vari capitoli, le allucinazioni umane si fondono (e confondono) con quelle della macchina, dando vita a mondi possibili e dimensioni parallele.

Valentina Tanni

Articolo pubblicato su Artribune Magazine #72

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Valentina Tanni

Valentina Tanni

Valentina Tanni è storica dell’arte, curatrice e docente; la sua ricerca è incentrata sul rapporto tra arte e tecnologia, con particolare attenzione alle culture del web. Insegna Digital Art al Politecnico di Milano e Culture Digitali alla Naba – Nuova…

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