Felice Limosani (1966) è un artista che fa della formazione multidisciplinare la sua cifra. Lavora con l’idea di integrare discipline umanistiche e cultura visuale per creare inediti livelli di percezione, ma anche avanguardie espressive per la trasmissione della conoscenza attraverso l’arte. Riconosciuto in ambito internazionale come interprete e innovatore delle Digital Humanities, con opere pionieristiche come Dante Il Poeta Eterno, acquisita dalla Harvard University nella sezione Digital Collection per la tutela e divulgazione a tempo indeterminato. Nell’ultima edizione di Artissima a Torino, la sua opera Pezzi di Pace è stata esposta da Tornabuoni Art tra grandi del dopoguerra come Accardi, Boetti, Burri, Dadamaino, Dorazio e Fontana.
Chi è Felice Limosani
Una suggestiva interpretazione di Felice Limosani la traccia Cristiano Seganfreddo, editor della testata d’arte contemporanea Flash Art. La si trova nel volume Pezzi di Pace pubblicato da Forma Edizioni, che accompagna l’opera dell’artista commissionata dalla Collezione Roberto Casamonti.
“Felice Limosani ha la magia dell’aedo. È la reincarnazione spirituale degli agenti della trasmissione del sapere. Scorre e attraversa generi e definizioni. Non si incastra nelle parole, che gli altri non sanno trovare, per quello che fa, ma genera una sorpresa, ogni volta diversa, attraverso tanti media, piattaforme e opportunità. Diventa arte, musica, scultura, pittura, digitale, suono, movimento, riflesso, pensiero. Non lo so. Non so incasellarlo e perché dovrei? Perché dovremmo? Felice è un unicum perché prosegue con la sua poetica, senza attesa del consenso, che ha, ma cerca un superamento dei mezzi espressivi per diventare quello che è, un ripetitore attivo di magia e di meraviglia”.
Intervista a Felice Limosani
Partiamo dalla fine, cioè la sua ultima opera Pezzi di Pace, commissionata dal gallerista Roberto Casamonti per la sua collezione, e installata a Firenze nella Corte di Palazzo Bartolini Salimbeni: un tema a dir poco attuale, la pace intendo.
L’obelisco è un simbolo descritto perfettamente dalla curatrice Sonia Zampini nel suo saggio critico: ”un ideale congiungimento tra cielo e terra, tra dimensione umana e luogo delle idee, un desiderio di completare e mettere in equilibrio gli opposti: noi e il mondo, noi e gli altri”. Queste parole trascendono nell’opera in una dimensione estetica e poetica, alla ricerca di un dialogo interiore e riflessivo con il pubblico. Considero Pezzi di Pace un’opera che desidera stimolare lo spettatore al raccoglimento e alla contemplazione con un pensiero rivolto alla conoscenza, alla cura e al rispetto verso noi stessi, verso gli altri e la natura, come premessa imprescindibile della pace, ora e adesso, senza rimandi.
Per una volta si è misurato con un materiale così solido, l’acciaio, anche se non ha rinunciato alla trasparenza e alla tecnologia che da sempre l’accompagnano come tratto distintivo di innovazione e cifra estetica.
Da sempre la mia ricerca è attratta da quelle idee che esulano i confini delle categorie, per sperimentare nuovi livelli percettivi e processi cognitivi inattesi, capaci di innovare il linguaggio nei musei come nelle scuole, senza tralasciare i progetti benefit per l’ambiente e per le realtà socialmente sensibili. La tecnologia, la cinetica, il design, la musica, l’architettura e molto altro, diventano l’ars una per la creazione di atmosfere, oggetti e linguaggi capaci di mettere in risalto dimensioni assenti ma presenti tra reale e immaginario. In Pezzi di Pace, le lamine d’acciaio, altamente tecnologiche, si innalzano nella magnifica corte rinascimentale, su uno specchio d’acqua riflettente, ma non vogliono essere un effetto speciale. Al contrario, desiderano destare interesse in chi le guarda, partendo dalla coscienza nei suoi aspetti manifesti e reconditi. Se l’arte riesce a comunicare visivamente e interiormente, vuol dire che il suo linguaggio ha una valenza universale senza limiti e prerogative, in grado di creare una logica comune con cui leggere il reale, fatta di estetica e di necessità, ma soprattutto di urgenze soggettive ed emergenze oggettive.
Oggi sentiamo molto utilizzare l’espressione Digital Humanities di cui lei è stato pioniere: cosa rappresenta artisticamente questa disciplina e con che cosa non dobbiamo confonderla?
Le Digital Humanities sono un ambito accademico che utilizza la tecnologia per custodire, interpretare e (possibilmente) attualizzare il patrimonio culturale che abbiamo ereditato. Non vanno confuse con l’intrattenimento digitale, che si concentra sulla creazione di esperienze ludiche o coinvolgenti attraverso i media digitali. Personalmente ritengo che ci sia una bellezza poetica e artistica nel far rivivere opere d’arte secolari, testi letterari antichi e patrimoni culturali preziosi in un formato digitale, rendendoli accessibili, attuali e comprensibili in modi mai immaginati prima. Questo permette alle opere del passato di non essere più bloccate nel tempo e limitate al concetto del proprio autore, ma possono vivere simultaneamente in ambiti diversi, sia in originale, sia rielaborate per esprimere nuove idee e aprire altri campi del sapere.
Possiamo definire la sua formazione multidisciplinare o quanto meno ibrida? La musica è la radice del suo percorso: quanto conta ancora oggi nel processo di produzione artistica?
Sono un autodidatta con licenza media alle scuole serali, nessun liceo e università. Un’esperienza che mi ha dotato di un approccio libero alla conoscenza, permettendomi di formarmi e sperimentare senza l’ingessatura accademica. Ho studiato in autonomia come un rabdomante, restituendo in modo del tutto personale i risultati. Sono stato un dj professionista per vent’anni anni, dipingevo con la musica paesaggi sonori, mixavo melodie differenti in una trama precisa cucita attorno al pubblico, con il pubblico e per il pubblico. Una grande scuola di creatività con le persone al centro, dove ho affinato una visione combinatoria della realtà con infinite traiettorie, senza nessuna etichetta e nessuna mappa per identificarle. Un capitale che va al di là delle parole, che oggi mi permette di trovare sempre nuovi spazi di valore, nuove domande e nuovi pensieri, “remixando” processi e linguaggi per creare qualcosa che prima non c’era.
Lei è un artista che si misura con le committenze più diverse: istituzionali, corporate, filantropiche, personali. Come si fa a non tradire la propria vocazione e i valori, non solo estetici, che ti ispirano e quanto invece si è plasmati dall’esterno?
Il mecenatismo nasce con le commissioni ecclesiastiche e aristocratiche, da anni le brand globali fanno qualcosa di simile. Il mondo corporate è stato un laboratorio dove ho potuto sovvertire il paradigma della post-comunicazione a favore della meta-comunicazione adatta a un nuovo mecenatismo. Superando lo scetticismo iniziale delle aziende e l’intellettualismo sterile del mondo culturale, ho trasformato il “convincimento dei consumatori” intorno a un prodotto, nel “coinvolgimento delle persone” intorno a un’esperienza artistica. Se essere plasmati dall’esterno, significa arricchire le persone oltre il consumo di un prodotto come di una mostra, allora non vedo controindicazioni. Le realtà istituzionali e filantropiche, in quanto tali non interferiscono e non influenzano per statuto. Invece la committenza privata come per esempio quella recente di Roberto Casamonti, tocca altre corde. Uno dei più autorevoli collezionisti e galleristi d’arte internazionali, che sa leggere, sentire e amare l’arte del passato e del futuro con disinvoltura: nel momento in cui ti rappresenta, ha già scelto di proteggere e diffondere i tuoi valori umani, artistici e estetici.
Qual è il segreto della sua grande capacità di parlare alle giovani generazioni, nonostante le difficoltà croniche che il mondo della cultura soffre in merito?
Se getti un sasso in uno stagno le onde concentriche cominceranno ad allargarsi sulla sua superficie. Non diversamente se i pensieri e le parole vengono gettati nella fantasia, nella curiosità e nelle emozioni di chi ti ascolta, avremo non solo onde di superficie ma anche quelle di profondità, con reazioni a catena che si trasformano in ispirazione, partecipazione e fiducia in se stessi. Forse riesco perché non spiego ma racconto e non mi pongo come un prof ma come un ex dj che oggi fa il dj diversamente. Personalmente a scuola sono stato un pessimo studente, ai tempi non si teneva conto dell’antico motto latino ludendo docere, cioè insegnare divertendo. Nelle università, come nei seminari o nelle masterclass, parlo con un linguaggio emotivo e non professorale, non mi rivolgo alle menti ma ai cuori: se non entri nei cuori non entri nemmeno nella testa di chi ascolta, non succede nulla! Questo vale a scuola, a casa, nei musei e per strada.
Una battuta finale: come vede il futuro?
Il futuro lo vedo qui e ora! Per dirla con il poeta Paul Éluard: “C’è un altro mondo ma è in questo”.
Irene Sanesi
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