HOPE è l’ultima mostra della trilogia “Techno Humanities”, voluta dal direttore del Museion di Bolzano Bart van der Heide, con l’intenzione di concepire lo spazio-museo come centro di immaginazione e ripensamento del presente e del futuro.
A trasportare subito in un potenziale domani è l’istallazione nell’ascensore AUI OI, di Ulrike Bernard e Caroline Profanter, concepita per la funivia del Renon di Bolzano e vincitrice di un concorso indetto da Museion, Festival Transart e Südtiroler Künstlerbund nel 2013.
Gli alieni e l’utopia del futuro nella mostra al Museion di Bolzano
Il quarto piano del museo è detto “Observatory” sia per la posizione che per il contenuto. Cannocchiali, mappe astrali, specchi di proiezioni video, scarti spaziali: tutto è visto nella chiave di “xeno” (in greco, “straniero”). Gli stranieri siamo noi, visti dal lato oscuro della luna, come nel caso della strana riproduzione effetto-radiografia del corpo di Michael Fliri, che ha fotografato i riflessi di luce nel calco in vetro del suo corpo.
Un cambio di prospettiva arriva nella spazzatura spaziale (Space Junk) dell’altoatesina Sonia Leimer, e nelle silhouette in tela e vinile che possono essere indossate, i Pénétrables di Nicola L., come i Sun & Moon Giant Pénétrables qui esposti.
Si continua con l’Arcade che rimanda al mito dell’antica Grecia e all’ambientazione dei videogiochi: opere interattive e bivalenti, che invitano a raggiungere l’oblio, assumere in sé il divino tra anime e fluidità di genere (l’installazione video a 5 canali Electromagnetic Brainology di LuYang), o trasfigurare New York in uno stato di grazia da innamoramento (Maggie Lee, Hearts Mission).
In tutti i lavori si evidenzia un certo ottimismo cinico nel rappresentare la compenetrazione tra reale e virtuale, dove gli interlocutori dialogano assenti, davanti a dispositivi elettronici, di cambiamento climatico e inquinamento.
Il futuro nelle opere degli artisti in mostra a Bolzano
Gran parte della mostra è dedicata al futuro. Lo si intuisce dalle tematiche trattate da alcuni artisti, come Black Quantum Futurism – promosso da un collettivo di Philadelphia per la ri-codifica di simboli d’epoca coloniale, purificati dal razzismo – oppure Afro-futurism di collettivi e musicisti techno.
E proprio a quest’ultimo il Museion dedica l’intero secondo piano, con l’omaggio a Drexciya, civiltà nata dai figli delle donne incinte gettate nell’Atlantico durante la tratta dei neri. Il mito ha ispirato la musica techno di Detroit, città da cui provengono l’artista Abu Qadim Haqq, di cui sono in esposizione alcune tavole, e il musicista, scrittore e produttore De Forrest Brown Jr., qui co-curatore della mostra stessa. Un’occasione per scoprire uno dei lati meno esplorati di questo popolare genere musicale.
Sara Bonfili
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