La contemporaneità è caratterizzata da un crescente ritorno all’irrazionalità: l’infallibilità logica e scientifica del modello umanistico ha dimostrato i suoi limiti. L’uomo ha perso i suoi punti di riferimento di fronte ad una macchina sempre più “intelligente” e a un ecosistema distrutto dall’accelerazionismo positivista. E così, alla luce dello sviluppo tecnologico costante e apparentemente inarrestabile, oggi tendiamo a credere che l’attitudine all’astrazione dell’uomo prevalga sulla sua capacità di essere totalmente razionale. A tal proposito, il filosofo e psicanalista Miguel Benasayag, nel suo saggio-intervista La Tirannia dell’Algoritmo, individua nel computer – inteso in maniera estesa come tecnologia – l’oggetto al quale l’uomo, nella nostra era, affida la “razionalità”. Sembra però che non sia solo l’emisfero sinistro del cervello, quello del controllo e della scienza, a essere affidato alle macchine, ma anche (e sempre di più) il destro, quello dedicato alla creatività.
La svolta generativa dell’arte
Sono numerosi i titoli allarmanti che sottolineano come l’intelligenza artificiale possa accelerare, inquietare o minacciare il nostro futuro. Allo stesso tempo, amplificando il connubio tra fascino e timore verso la tecnologia, sempre più artisti e designer stanno indagando questo settore, portando il mondo dell’arte verso quella che Kate Crawford, ricercatrice, artista e autrice di Atlas of AI, definisce una “svolta generativa”. Va sottolineato che l’impiego dell’intelligenza artificiale nelle creazioni artistiche non è una novità. Le prime sperimentazioni di arte generativa risalgono agli Anni Sessanta con la cosiddetta code art.
Tuttavia, oggi stiamo assistendo all’affermazione di una vera corrente artistica condivisa: quella dell’arte generativa, in cui opere d’arte sono determinate da algoritmi o generate al computer. Nel panorama contemporaneo, l’accettazione dell’arte generata da macchine è cresciuta, sfatando pregiudizi come dimostrato dalla recente acquisizione del MoMA di Unsupervised di Refik Anadol, un’opera generativa che utilizza l’archivio visivo del museo come dataset. Un fatto inconcepibile fino a pochi anni fa, se pensiamo allo scandalo suscitato dalla vendita all’asta da Christie’s New York del ritratto di Edmond De Belamy. L’opera – generata da un algoritmo su indicazione del collettivo artistico parigino Obvious, trio francese che fa uso dell’intelligenza artificiale e della realtà aumentata nelle sue creazioni – fu battuta all’asta nel 2018 per oltre 430 mila dollari, dando vita a un caso internazionale.
Un nuovo manifesto dell’arte nell’era delle AI
Gli sforzi di molti artisti sono rivolti verso un futuro nel quale siano le macchine a svolgere un lavoro di creazione. Tuttavia rimangono questioni aperte, come il problema della privacy e della gestione del diritto d’autore: se il ruolo della macchina e dell’algoritmo non è meramente procedurale, chi è l’artista, l’algoritmo o chi lo progetta? È difficile comprendere oggi cosa si prospetta nel futuro dell’arte. In questa riflessione però, ci viene in mente il saggio di Walter Benjamin del 1936, L’opera d’arte nell’era della riproducibilità tecnica. Così come allora, anche oggi la tecnica ci mette di fronte a nuove sfide teoriche. È forse giunto il momento di un nuovo manifesto che definisca il ruolo dell’arte nell’era dell’IA? Come sottolinea e conclude Benasayag, nell’ipermodernità, sia la razionalità che la creatività trovano espressione nelle macchine, ma spetta a noi umani costruire un ponte che unisca la tecnologia alla nostra singolarità e cultura.
Melissa Marchi
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