Intervista all’autore della nuova, fantascientifica copertina di Artribune Magazine
AI, big data e simpatici compagni virtuali sono alla base del futuro distopico immaginato da Santi Jonathan Di Paola, studente dello IED di Torino, per la copertina del nuovo Artribune Magazine
Tra i palazzi di quella che sembra una Parigi del futuro, si aggira un axolotl virtuale: la cover di Artribune Magazine 79 immagina un 2044 fatto di interazioni quotidiane e simbiotiche tra essere umano e intelligenza artificiale. Ne parliamo con Santi Jonathan Di Paola, autore della cover e studente del Corso di Laurea Magistrale in Transdisciplinary Design allo IED di Torino.
Intervista a Santi Jonathan Di Paola
La tua immagine di copertina nasce dal progetto MnemoOS e parla di futuro, mobilità, tecnologia, sostenibilità… secondo te, come può il design contribuire a creare un mondo migliore? Quali sono le sfide più rilevanti che possiamo risolvere attraverso il design?
Il design è parzialmente responsabile di ciò che incontriamo nel mondo (principalmente nella dimensione antropizzata/urbana). Il design crea quindi due fenomeni unicamente umani: anticipazione ed agency. Anticipazione è il risultato della facoltà umana di immaginare anche ciò che non è strettamente contingente, esistente, e quindi intravedere un mondo/stato/condizione che ancora non si è manifestata o che mai si manifesterà, irrazionale, onirico, inutile. Agency è la capacità di agire indipendentemente, autonomamente, e di farlo coerentemente con il proprio giudizio morale. Per me l’unione di questi fenomeni è l’affordance, che può essere tradotta come “invito”: è la proprietà distribuita tra oggetto e soggetto, il cui il primo invita quest’ultimo ad interagire con esso (come il manico di una tazza o la maniglia di una porta).
In che modo?
Le affordance per i designer sono il bisogno profondo di interagire con il mondo e trovare modi sempre migliori per farlo, trovare linguaggi per specie differenti, decostruire problemi, posizionarsi in nuovi modi. Nell’approccio ecologico alla visione di JJ Gibson, le affordance sono la mediazione nel sistema umano di percezione-azione: i designer hanno fame di mondo, di vedere come potrebbe essere e cercare a tutti i costi di fare in modo che sia. Ma proprio per questo motivo il design è al servizio di tensioni politiche ed economiche che ripetono in un loop incontrollabile di valori di cui non sempre possiamo farci portavoce, bisogni che non condividiamo, fini che non ci appartengono. Quindi mi viene da chiedere: se il design può creare un mondo migliore, per chi può farlo? Esattamente quale essere umano, non-umano, più-che-umano beneficerà delle nostre proiezioni? E a che costo? Chi sta pagando per il mio beneficio? Qual è la catena di inter-responsabilità in cui vado ad operare? Quanto, da designer, sono stato bravo a guardare al quadro completo? In sostanza, il design sta cercando di risolvere se stesso: la ragione per cui esiste, come principio ordinatore per la conseguente responsabilità di agire
Qual è l’ispirazione dietro questo progetto?
Mi chiedevo, studiando design applicato alla mobilità, cosa ci fosse oltre al desiderio/necessità di andare da A a B, origine-destinazione. E quindi ampliando la mia prospettiva ho intravisto nell’origine la nostra nascita e nella destinazione la nostra inevitabile morte: in mezzo, tutte le piccole ma fondamentali transazioni di movimento-significato che sostanzialmente definiscono la nostra storia. Mi chiedevo allora come fare in modo che questa “biografia del movimento” potesse essere resa accessibile e valorizzata: oggi la nostra identità e memoria, quindi la nostra cultura, appartengono principalmente ad una dimensione digitale. L’etnografia del futuro ma anche del presente già guarda dentro database, archivi digitali, profili social. Ma i nostri ricordi e produzioni virtuali sono smaterializzati nel senso che sembrano non occupare spazio fisico: invece alcune precise località geografiche si prestano ad ospitare grandissimi data center da cui prende vita il dinamico mondo online.
Come nasce MNEMO?
Mi sono chiesto quindi come rendere tutto questo tangibile nelle case private e negli spazi pubblici. Da qui MNEMO, una fittizia azienda che nasce nel 2024 come totem domestico per conservare le memorie digitali, e preservare quindi il ricordo dei cari defunti. MNEMO l’abbiamo immaginata poi nel 2044, come un’azienda che gestisce a livello globale i dati prodotti dagli esseri umani, e li rende accessibili nei “sacri nodi della mobilità”, dei templi urbani in cui poter rivedere il “viaggio” degli antenati/parenti.
Dettaglio fondamentale è che MNEMO associa un AI companion all’utente, dalla nascita alla morte, che si occupa di tenere traccia della “biografia del movimento” come lascito ai posteri, ma che tiene anche nota dell’impronta di carbonio dell’utente: questo dato diventa fondamentale perché pubblico ed accessibile, in grado di influenzare il “carattere” del companion. Abbiamo una responsabilità trans-generazionale rispetto al nostro impatto sulla biosfera, MNEMO serve a rendere non-negoziabili le nostre buone e cattive azioni. Distopico ma intrigante.
Qual è la tua relazione con la IA e che vantaggi ci vedi nel futuro?
Sono una persona molto curiosa, e quindi prendo appunti, cerco, assorbo, medito e trasformo: mi piacerebbe tantissimo avere un “collega/amico/compagno digitale” che in maniera sistematica e veloce mi aiuti nello svolgere questo compito autobiografico. Ho testato alcuni servizi e visto le potenzialità, ma sono consapevole del rischio di diventare ancora più pigri, passivi, dipendenti dai contenuti dell’infosfera costruiti su misura per noi. Siamo fatti di storie, e quanto le istituzioni pubbliche o private sono più brave a raccontarle, più noi siamo partecipi nel creare il mondo e la società che ne conseguono. Ho paura che, come per ogni tecnologia, noi non siamo pronti. Per definizione l’AI rende ineffabili i propri nessi causali di funzionamento, li semina nel “latent space”, da cui poi genera gli output, come dei sogni. Noi non abbiamo la capacità dialogica di addomesticare questo sistema, non riusciamo a farcene una ragione, non riusciamo ad empatizzare se non tramite un unico rapporto di forza di cui saremo o vittime o vincitori: la schiavitù.
Sei uno studente del Master of Arts in Transdisciplinary Design a Torino. Alla fine del corso, cosa significa per te “Transdisciplinary Design”?
È una “buzzword” che mi ha rapito quando ad agosto di due anni fa ho deciso di iscrivermi al master. Avevo già capito, e questa prospettiva si è consolidata e maturata, di voler essere un “non-specialista” tra specialisti. I designer sono allo stesso tempo scienziati ed artisti, credono nella loro sensibilità ma ricercano una verità/fatto con metodo, tendono all’assoluto dandogli forma e comunque si fermano a discutere ed osservare. Credo che il design transdisciplinare sia un modo di intendere, e quindi di vendere/posizionare, la nostra condizione naturale. Per me il passo successivo è l’anti-design, che potrebbe partorire nuove avanguardie nel nostro post-post-modernismo.
Cosa significa per te vedere il tuo progetto in copertina di una rivista come Artribune?
Questo progetto mi ha un po’ rapito, divertito, appassionato: scherzando con il nostro professore Damiano Gui abbiamo detto che c’è abbastanza materiale da poter scrivere un romanzo di fantascienza. Stimo molto i professori IED ed i miei colleghi, e devo dire che questa copertina dimostra che gli sforzi pagano. È una “scoperta” banale, ma così banale che emoziona comunque compierla.
Fragile Surface: il progetto IED x Artribune
Il progetto Fragile Surface si propone di raccontare attraverso immagini e contenuti multimediali realizzati da studentesse, studenti e Alumni dell’Istituto i temi centrali della contemporaneità. Per il secondo anno di collaborazione abbiamo scelto di affidarci ai temi delle più importanti manifestazioni di arte e design, prendere in prestito spunti di riflessione e restituire immagini fragili ma potenti. Superfici sottili che racchiudono complessi punti di vista.
Le biennali (triennali – quadriennali – quinquennali) sono l’occasione per artisti e designer di riflettere sugli argomenti centrali della contemporaneità. Partendo da manifestazioni del recente passato e tenendo in considerazione le tematiche delle prossime, cercheremo collegamenti espliciti o implicite contrapposizioni e ci interrogheremo proponendo un punto di vista inedito: quello di giovani persone che si affacciano sul futuro.
SCOPRI DI PIÙ cliccando qui
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati