Quanti e quali schermi sono presenti nella nostra vita? La parola all’esperta
Elisabetta Modena racconta in un’intervista come sia riuscita a spacchettare, nel suo ultimo libro, il concetto di “Display”, tratteggiandone la complessità e restituendone al contempo le radici storiche…

Elisabetta Modena (Modena, 1980), docente e ricercatrice di Storia dell’Arte Contemporanea allo IULM di Milano, è da sempre attenta ai nuovi media, al modo in cui l’espressione artistica abbraccia le nuove tecnologie digitali, la realtà virtuale e gli ambienti immersivi. Il suo ultimo libro: Display, (Einaudi), come suggerisce il titolo, esplora il concetto di display nelle sue diverse accezioni, con un particolare interesse ai cambiamenti che hanno interessato il display espositivo. Tematiche di cui abbiamo parlato con l’autrice in questa intervista.

Intervista a Elisabetta Modena
Quando è nata l’idea del tuo ultimo saggio “Display”?
Fin dalla mia ricerca di dottorato, sono sempre stata affascinata dalla storia delle esposizioni e degli allestimenti, da tutto ciò che ruota intorno all’atto di mettere in mostra qualcosa per qualcuno. Oggi, e sempre di più, si parla in questo contesto di “display” espositivo, un termine che utilizziamo quotidianamente anche per riferirci ai nostri dispositivi: gli schermi di computer, tablet, smartphone… Mi sono chiesta se esistesse un legame tra queste due accezioni della parola display e, quando ho trovato conferme sia nella storia che nella contemporaneità, ho deciso di scrivere questo libro. In modo un po’ atipico, il testo invita così a osservare sotto la stessa prospettiva continuità e discontinuità tra elementi apparentemente molto lontani tra loro: la Wunderkammer cinquecentesca e un archivio digitale, oppure la cornice di un quadro e quella di un device indossabile.
È innegabile che ormai il “display” sia parte integrante della vita quotidiana di ognuno di noi, come ha organizzato la narrazione delle tante declinazioni?
Ho deciso di organizzare il volume in tre sezioni, esplicitate nel sottotitolo del libro. Ci sono i “luoghi” in cui oggetti e contenuti sono messi in mostra, che necessitano di specifiche indagini e carotaggi (atelier, galleria, museo, strada, archivio); “dispositivi” intesi come strumenti materiali e teorici, che consentono ai contenuti esposti di essere presentati in quei luoghi (cornice, piedistallo, vetrina, schermo, didascalia); e “gesti” (allestire, curare, illuminare, visualizzare, esporre) messi in atto per produrre senso, come appendere un quadro a un muro o selezionare dei contenuti su uno schermo touch screen per ordinarli in una galleria di immagini. Ogni capitolo prende avvio da un caso di studio emblematico, che serve a far emergere aspetti chiave del tema affrontato. A partire da esso, il testo sviluppa una lettura specifica finalizzata a mettere in evidenza il ruolo di quel luogo, dispositivo o gesto nel processo del mostrare.

Elisabetta Modena e l’attività di docente
Lei è docente e ricercatrice di Storia dell’arte contemporanea, quali artisti, secondo Lei, hanno maggiormente contribuito all’evoluzione del concetto di “mostrare”?
Nel libro ho dato ampio spazio agli artisti che, soprattutto a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, hanno affrontato direttamente il tema della mostra e il significato del mettere in mostra. Penso in particolare a Marcel Broodthaers e agli artisti della prima e seconda generazione della cosiddetta Institutional Critique, come Hans Haacke, Michael Asher, Daniel Buren e Andrea Fraser. Un ruolo cruciale lo ha avuto anche Fred Wilson, il cui lavoro ha stimolato un profondo ripensamento su ciò che viene – o non viene – messo in display. Tra gli italiani sono rilevanti in questo senso artisti che hanno sviluppato pratiche post-concettuali sul tema, come Alberto Garutti e Cesare Pietroiusti. Ma nel libro trovano spazio anche autori più giovani che hanno esplorato la questione espositiva in modi diversi, come Riccardo Benassi, Emilio Vavarella e Anna Franceschini. Per la copertina ho scelto un’opera di Mark Dion, forse l’artista che oggi lavora con più coerenza e rigore sul tema del display espositivo.
Quale riscontro e il dialogo con i suoi studenti sta suscitando la sua pubblicazione?
Non ho ancora avuto modo di mettere alla prova il volume in aula, ma il libro nasce dalle numerose esperienze didattiche che negli ultimi 15 anni ho condotto in diverse università e accademie italiane, prima di arrivare alla IULM di Milano, dove insegno stabilmente oggi. Il dialogo con gli studenti è, inutile dirlo, sempre determinante. Per una ragazza o un ragazzo di vent’anni è più immediato comprendere come oggi siamo tutti costantemente chiamati a mettere in display – e a metterci in display – attraverso i social network, che in fondo non sono altro che gallerie di contenuti con didascalie, selezionati, incorniciati e realizzati per essere mostrati a un pubblico. Ma forse riflettere criticamente sulle strategie e sui significati di questo atto è, soprattutto per loro, un esercizio particolarmente significativo.
Annalisa Trasatti
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