Pensando ad Alberto Giacometti (Borgonovo di Stampa, 1901 – Coira, 1966), le prime evocazioni probabilmente saranno decisamente opposte: la sensazionale asta londinese di Sotheby’s, quando L’homme qui marche è stato aggiudicato per oltre 74 milioni di euro, e gli scatti d’autore (Doisneau, Cartier-Bresson…) che ritraggono l’artista nel suo atelier polveroso e caotico o nelle strade di Montparnasse, come un eremita della creazione dal volto rugoso e dalle giacche dimesse di tweed.
Il corto circuito di un artista che sembrava vivere in un mondo tutto metafisico mentre le sculture raggiungevano quotazioni astronomiche appena uscite dallo studio/sacrario/antro ha continuato ad approfondirsi dopo la morte di Giacometti, a fronte di una fortuna sul mercato costantemente incrementale. È molto interessante, anche come esercizio psicoanalitico, indagare cosa possa spingere tycoon a battagliare a colpi di milioni per aggiudicarsi opere d’arte ascetiche che procedono per sottrazione, che rinnegano la consistenza del mondo fenomenico, che riducono i corpi ai minimi termini, a sagome in equilibrio precario.
Tuttavia, la mostra di Gallarate tralascia il discorso sociologico per concentrarsi sul lavoro di Giacometti. Le opere, una selezione dalla collezione degli eredi insieme a prestiti da gallerie italiane, possono essere divise in due categorie: ci sono le opere finite e gli schizzi; le sculture (i celeberrimi bronzi modellati della fase matura, ma anche marmi e graniti giovanili) e le opere grafiche (dipinti e disegni). Se i soggetti delle opere concluse sono ricorrenti e appartengono alla cerchia intima (i genitori, i fratelli, la moglie, gli amici come il professor Corbetta e Jacques Dupin) e a una ricerca privata sull’eterno ritorno della stessa figura attraverso gli anni, gli schizzi e bozzetti testimoniano la compulsione di un artista “che aveva sempre la matita in mano”: copia opere d’arte celebri, ritrae Georges Braque sul letto di morte, addirittura si diverte a riprodurre il volto di Harvey Lee Oswald, l’assassino di JFK, ai margini di un articolo di cronaca.
Il percorso espositivo si sviluppa in senso cronologico: l’invariabilità dei modelli evidenzia l’evoluzione dalle prime teste ancora influenzate da Rodin e dall’arte africana fino alle sagome filiformi e ieratiche, cifra dell’artista. Alcune figure hanno la dimensione poco più che di spilli, altre ricordano le statuette votive fenicie, altre ancora tendono alla bidimensionalità e sembrano emergere da un passato immaginario e arcano, come sacerdoti ancestrali (si veda Lotar I) tanto che Jean Genet scrisse: “Le sue statue sembrano appartenere a un’età sepolta. Giacometti mi dice che una volta pensò di modellare una statua e poi di sotterrarla. A patto che la si trovasse solo molto più tardi”.
La sezione pittorica è particolarmente affascinante. I ritratti composti per sovrapposizione di tratti spaziali, che definiscono un volume emergente su sfondi uniformi in scala di grigi o ocra, rimandano alla dialettica lunga una vita con l’amico-rivale Francis Bacon. Tuttavia, nei dipinti di Giacometti non c’è traccia della violenza, delle contorsioni e della carnalità del pittore inglese: i suoi corpi restano volumetrie astratte siderate nell’istante di un’attesa indefinita, esattamente come i personaggi di Aspettando Godot di Samuel Beckett, per cui Giacometti realizzò le scenografie nel 1963.
L’esposizione punta all’essenza di un’arte essenziale: il lavoro artigianale, i polpastrelli che plasmano la terra. E la poetica esistenzialista di uno scultore che, osservando i passanti, considerava un miracolo il fatto che la gente riuscisse a mantenersi in equilibrio.
Alessandro Ronchi
dal 5 marzo al 5 giugno 2011
Alberto Giacometti – L’anima del Novecento
a cura di Michael Peppiatt
MAGA – Civica Galleria d’Arte Moderna
Via De Magri, 1 – 21013 Gallarate
Orario: da martedì a giovedì e domenica ore 10.30-19.30; venerdì e sabato ore 10.30-22.30
Ingresso: intero € 8; ridotto € 5
Catalogo Electa
Info: tel. +39 0331706011; [email protected]; www.museomaga.it
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