La Biennale di Sharjah, che pasticcio

Si è appena conclusa la biennale delle dispute e delle polemiche. No, non parliamo di quella nostrana, anche se le similitudini non mancano. Si tratta della decima Biennale Internazionale di Sharjah, negli Emirati Arabi.

Doveva essere la biennale della celebrazione per il suo direttore artistico, Jack Persekian. La celebrazione di un “regno”, come molti osservano da tempo, essendo Persekian direttore artistico della biennale di Sharjah per la quarta volta (la prima edizione fu quella del 2005). Un’ascesa folgorante, che lo ha visto protagonista incontrastato della scena artistica della città per oltre un quinquennio, e che ha portato di fatto alla “musealizzazione” di un evento come la biennale, che più di ogni altra ricorrenza nell’ambito dell’arte contemporanea necessiterebbe invece di un rinnovato apporto di idee.
Lo stesso Persekian è anche a capo della Sharjah Foundation, strettamente connessa alla biennale e dotata di un budget ragguardevole, in grado di finanziare progetti artistici altrimenti irrealizzabili anche a queste latitudini. Ma come spesso accade quando si gode di tanto potere, il rischio è il delirio di onnipotenza, affiancato da una più umana forma di auto indulgenza, i cui esiti si rivelano raramente positivi.

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Artur Żmijewski - A dream of Warsaw - photo Lauren McCarty

Ma insomma, cos’è successo? In un’area cittadina ad alta frequentazione (nella conservatrice e tradizionalista Sharjah, non dimentichiamolo) viene allestito il lavoro di Mustapha Benfodil, nota figura dissidente del panorama culturale algerino. Si tratta di un’installazione di manichini che indossano t-shirt su cui sono trascritte brevi frasi, alcune delle quali irriverenti e potenzialmente offensive della morale. La “responsabilità” è della curatrice Rasha Salti (che lavora con Suzanne Cotter e Haigh Ayvazian, quest’ultimo in veste di associate curator), che ha selezionato Benfodil, il quale spiega chiaramente nel testo in catalogo: “Per la decima biennale di Sharjah esploro questioni legate ai temi della dissidenza, della sovversione, della decostruzione, del tradimento, della trasgressione attraverso il mio ‘bazar linguistico’ rimpolpato di ‘algerianismi’. Nella mia sacca ci sono frammenti di un ‘io’ impuro, schizofrenico, pieno di parole bastarde, plasmati dalla violenza delle conquiste e affascinato dalla libertà grammaticale”.
Era piuttosto prevedibile che l’episodio potesse portare alla “detronizzazione” di Persekian, come puntualmente è accaduto. Accompagnato da un’ondata di critiche rivolte alla direzione della biennale e con tanto di ricorso alla censura. La direzione ad interim è passata poi a Shaikha Hoor Al-Qasimi, in attesa di conoscere il vero successore.

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Anna Boghiguian - A simple affair which moved the world - photo Lauren McCarty

Questa lunga premessa è doverosa perché permette di contestualizzare una serie di debolezze della X Biennale di Sharjah. A cominciare dalla distribuzione geografica – se non ideologica – degli artisti selezionati, una trentina dei quali sono di origini libanesi, siriane, palestinesi o Sharjah aficionados: una quantità francamente soverchiante di lavori riflette una posizione politicamente orientata, conferendo a questa edizione della biennale una spiccata connotazione di parte.
A ciò si aggiunge il linguaggio didascalico di molti lavori, che paiono soffrire di un ridotto livello di elaborazione (Hala Al-Ani con A Typology of Houses, un progetto à la Bernd & Hilla Becher; Khalil Rabah con iArt Exhibition; i dipinti di Shoreh Mehran; The Mapping Journey Project di Bouchra Khalili; il video Their dreams di Adel Abidin; la serie Eleven views of Mount Ararat di Gilbert Hage, solo per fare qualche esempio).

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Hala Al-Ani - A Typology of Houses - photo Lauren McCarty

Impossibile non notare inoltre la glorificazione della pittura moderna siriana e iraniana, la cui presenza in questo contesto risulta inappropriata e autoreferenziale, senza nulla togliere all’importante ruolo svolto da pittori quali Fateh Moudarres, Ziad Dalloul, Bahman Mohasses ed Elias Zayat.
Un’ultima nota sui curatori, che, come già nelle ultime edizioni, sembrano soffrire di limitata libertà e che, in questa edizione, non sembrano aver adeguatamente seguito i progetti degli artisti selezionati, che risentono in larga misura di un limitato sviluppo.
Fra i lavori più convincenti, segnaliamo il Kashmiri Shawl di Aisha Khaled, la possente videoanimazione Fictionville di Rokni Haerizadeh e la finissima rielaborazione del miniaturismo orientale nella serie dei Moderate Enlightenment di Imran Qureshi.

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Abdullah Al Saadi - Camar Cande’s Journey - photo Lauren McCarty

Infine, un’osservazione fuori campo: il grande assente di questa biennale è l’asino di Abdullah Al Saadi (uno dei tre artisti che rappresenteranno gli Emirati Arabi Uniti alla Biennale di Venezia), cui è stato rifiutato il permesso per completare il suo progetto Camar Cande’s Journey, che avrebbe previsto la partecipazione dell’asino (animale che accompagna l’artista nei suoi viaggi di documentazione del territorio) alla biennale per tutto il corso della sua durata. In questo caso, la scusa dei diritti degli animali non regge granché, visto che poco lontano, nella stessa ala del museo, esemplari di Paulonia tomentosa vengono sottoposti a un infausto esperimento di sopravvivenza foto-alimentata.

Cristiana de Marchi

www.sharjahart.org/biennial

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Cristiana de Marchi

Cristiana de Marchi

Nata a Torino nel 1968, da oltre un decennio Cristiana de Marchi si è stabilita in Medio Oriente dove vive e lavora (Beirut, 1998-2006; Dubai, dal 2006 ad oggi). Specialista in arte e archeologia, ha collaborato con varie istituzioni culturali…

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