La mostra a Palazzo Grassi presenta una variopinta e poliedrica compagnia di artisti. Al contrario della “sorella” di Punta della Dogana, il colore è l’elemento centrale di questo allestimento. Adattandosi perfettamente alle differenti tipologie degli ambienti a disposizione, la curatrice, Caroline Bourgeois, è riuscita a proporre due mostre diversissime e profondamente legate da fili sottili e profondi, che fanno riflettere sull’essenza della vita stessa.
A farla da padrona, nelle sale di Palazzo Grassi, è l’installazione di Joana Vasconcelos, Contamination (2008-10), una gigantesca e poliforme germinazione composta da patchwork di differenti materiali, raccolti e cuciti dall’artista. La Vasconcelos è quella del lampadario-tampax alla Biennale del 2005, e rammentandoselo si comprende immediatamente la proposta provocatoria e femminista che c’è dietro Contamination. Un’opera legata all’artigianato femminile che diventa il perno della Fondazione Pinault. Contraltare diretto di questa megainstallazione che letteralmente avvolge tutto il palazzo, è il sempreverde Puppy di Jeff Koons.
Troviamo anche in questa mostra, meno che a Punta della Dogana in verità, un certo riutilizzo di opere e artisti che a volte annoia un poco. Come annoia l’installazione di Thomas Houseago, L’Homme Pressè (2010-11), una rivisitazione picassiana della figura umana a grandezza monumentale, posta proprio sul Canal Grande.
Nel mezzanino si ri-vede Francesco Vezzoli, con due lavori allestiti in altrettante sale cinema speculari: Democrazy (2007), visto alla Biennale del 2007, e Marlene Redux: a true Hollywood story (2006), una sorta di coccodrillo narrato sottoforma di video entertainment dove il nostro si cimenta in un’autocelebrazione ironica e dissacrante.
Al primo piano la fanno da padroni gli orientali. Si vede che il mercato che insegue ed è inseguito da Pinault punta sempre di più su artisti asiatici o mediorientali, che propongono opere interessanti e ricche di spunti creativi. È il caso di Farhad Moshiri, con Life is Beautiful (2009), che compone con 1214 coltelli, in un corsivo curatissimo, la scritta del titolo: un ossimoro evidente tra l’aspirazione e la realtà. Il cinese Zhang Huan conduce nel tempio della mitologia comunista con i ritratti di Ho Chi Min (2008) e Mao (2008), prodotti mescolando incenso, carboncino e resina. Il risultato è un prodotto raffinato, che coinvolge anche l’olfatto e riconduce alla mistica dei templi cinesi. A completare la triade delle figure di riferimento per l’artista, il ritratto Old Bai Shi-in 99 years old (2007), uno dei pittori più conosciuti del Paese.
Una delle sorprese di questa mostra è il “giovane” (classe 1979) francese Loris Gréaud, che ci porta in un mondo incantato di ombre, dominato da una Luna tonda e accogliente, con l’installazione Gunpowder Forest Bubble (2008). Un elaborato concept site specific per Mattew Day Jackson, che propone la sua idea del futuro e di mortalità con un assemblage cruciforme dove troviamo, sotto teca, uno scheletro arcobaleno. La particolare natura di questo spazio espositivo permette l’allestimento di video, come quello legato sempre al tema della decadenza di Cyprien Gaillard, Pruitt-Igoe Falls (2009), con una nebbia notturna che avvolge un cimitero. E proprio la presenza di video è correttamente bilanciata, senza affaticare la visita. Le disturbanti immagini di bambini, truccati e acconciati come nell’album di un pedofilo, di Sergey Bratkov, troppo simili a certi lavori di McCarthy, aprono una storia nella storia di questa mostra, una parentesi su abusi e torture che si conclude con il lavoro di Nicholas Hlobo, Ingubo Yesiswe (2008): un’installazione quasi zoomorfa, composta di copertoni e materiale di recupero e che rimanda a un’odiosa tortura utilizzata in Sudafrica durante l’apartheid, nella quale i copertoni di bicicletta erano drammaticamente protagonisti.
Al secondo piano, da notare il dialogo nel quale vengono coinvolti il lavoro sulla memoria colettiva di Frédéric Bruly Bouabré, Voitoures partout (2005-07) e la Mappa (1971-73) di Alighiero Boetti. Piace assai meno che Autoritratto, Mi fuma il cervello (1993-94), famosissima scultura di Boetti, non sia installato come di norma, ovvero con un’ampia cascata di acqua sulla testa, che appunto provvede a far fumare letteralmente il cervello del genio italico. Le tele iperrealiste di Johnathan Wateridge, propongono una nuova visione dell’arte da cavalletto. L’artista, nato in Zambia e residente in Gran Bretagna, dipinge vere e proprie foto di backstage, dove si vedono all’opera, su set cinematografici, truccatori e registi. Sulla scia dell’iperrealismo anche le sculture di Charles Ray, che troviamo anche all’esterno di Punta della Dogana con Boy with a Frog; a Palazzo Grassi, la sua particolare visione della famiglia (Family Romance, 1993), con una serie di quattro personaggi che si tengono per mano in resina e capelli veri. Dello stesso artista anche una gigantesco stiacciato donatelliano, Two Boys (2009), in bianco su bianco che quasi si confonde con la parete d’appoggio.
Marlene Dumas, una delle artiste di punta della Collezione Pinault, è in mostra con due piccole ma potenti tele, che nuovamente rimandano al mai sopito tema della morte. Nella tensione costante tra vitalismo e rimando alla decadenza, apprezzabile la scelta di esporre Respirare l’Ombra – foglie di Tè (2009) di Giuseppe Penone: un luogo mistico nel quale soffermarsi a riflettere sull’afflato vitale che ci fa vivere e che troppo spesso ci dimentichiamo.
727-272 (The Emergence of God at the Reversal of Fate) (2007-09) di Takashi Murakami rimane una delle opere migliori di tutta la collezione Pinault. Il congedo alla mostra spetta però a Maurizio Cattelan con un’opera recente, We (2010), dove, nella solita scala ridotta, l’artista e il suo doppio, vestiti come sul letto di morte, ci fissano con due differenti espressioni tra il meravigliato e lo sconfortato. In quest’ultima opera si trova l’epitome della rassegna. Un costante e gioioso memento mori in dialogo eccellente con l’Elogio del dubbio di Punta della Dogana. In entrambi i casi, la riflessione sulla caducità della vita è il pretesto per presentare opere di valore, in tensione tra novità e tradizione.
Chiara Di Stefano
Venezia // fino al 31 dicembre 2011
Il mondo vi appartiene
a cura di Caroline Bourgeois
www.palazzograssi.it
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