Jan Fabre e la morte scolpita
Cinque grandi sculture in marmo di Carrara appoggiate su un solenne pavimento dorato. Jan Fabre, nel suo ormai consueto appuntamento veneziano - che si protrae fino al 16 ottobre -, cita Michelangelo e ammalia con la ricchezza scintillante dei materiali. Sullo sfondo, il sempiterno tema della morte.
Una pavimentazione in foglia d’oro che sostiene, rialzando il pavimento di mezzo metro, tutto l’allestimento nei grandi spazi della Scuola della Misericordia, non è certo una cosa che si possono permettere in molti. Ma il successo, anche di mercato, decretato a Jan Fabre (Anversa, 1968) negli ultimi anni lascia ben poche perplessità riguardo alle sue possibilità economiche.
Curata da Giacinto di Pietrantonio – un habitué delle mostre di Fabre in laguna – e Katerina Koskina, questa esposizione accoglie il visitatore con un trionfo di ricchezza nei materiali. Adagiate sulla superficie riflettente del pavimento dorato, le cinque grandi sculture spiccano per la purezza del marmo statuario di Carrara con cui sono state realizzate. Distribuite con una rigorosa ma semplice geometria prospettica, accompagnano lo sguardo verso il fondo, dove si staglia una rilettura della Pietà michelangiolesca. La resa del dettaglio naturalistico, in linea con la tradizione pittorica fiamminga, provoca un cortocircuito che rende credibile la visione e allo stesso tempo ne nega l’esistenza.
Per giungere al termine è necessario compiere un rito: togliersi le scarpe e sottomettersi ai dettami dell’allestimento. Salire su quel pavimento porta gli spettatori a diventare parte del lavoro, sculture viventi che accolgono i suggerimenti sussurrati dai dieci nidi appesi, composti a gusci di scarabeo, animale simbolo della metamorfosi e sacro agli egizi. A iniziazione compiuta, si giunge dunque al fondo, e ci si arresta di fronte al Fabre marmoreo – ancora una volta l’artista si autoritrae – che giace tra le braccia della madre, la cui disperazione ha tradotto i lineamenti del volto in quelli di un teschio. La morte è in chi rimane, più che nel corpo di chi viene a mancare. È un lutto puro, bianco, opaco e assorbente, una morte chiaramente scolpita, determinata e inevitabile.
Durante questa silenziosa promenade fra le sculture, Fabre racconta del suo incontro con lo scienziato Giacomo Rizzolati. Esistendo una sincronia, a livello cerebrale, tra azione e osservazione, l’artista ci mette nelle condizioni di poter provare dolore osservando la morte nel teschio di Maria. Ecco dove nascono la compassione e la conciliazione nel lavoro dell’artista belga: dai cosiddetti neuroni a specchio, mettendo in connessione cuore, neuroscienza e spiritualità.
Al nostro interrogativo su che cosa sia per Fabre l’autenticità, la sua risposta non lascia dubbi: “Un fuoco che passa da un autore a un altro, un fuoco inalterato che avvolge una volta un’opera, una volta un’altra opera. Come qui”.
Chiara Casarin
Venezia // fino al 16 ottobre 2011
Jan Fabre – Pietas
a cura di Giacinto di Pietrantonio e Katerina Koskina
www.janfabre.be
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