Apparentemente la mostra Made in China, curata da Daniele Capra e Maura Celant e con i lavori di tre italiani (anche se, a questo punto, è meglio dubitarne: si esige dicitura DOC), Matteo Attruia, Nicola Genovese e Antonio Guiotto, tratta “solo” di Cina e contraffazione.
Guiotto e il suo mobile impossibile portano al paradosso l’idea di funzionalità, che nella copia è limitata e limitante, proprio perché frutto di una mimesi superficiale; Genovese gioca con la pazienza del visitatore, che non sa se sentirsi stupido o ignorante mentre aspetta invano e atterrito che da Moo Cow in the Box fuoriesca un branco di mucche impazzite. L’ambiguità dei due padovani, giocata sul concetto di imitazione/falsificazione, diventa metafora di una problematica economica quanto mai pressante, pertinente non solo al sistema-paese, ma all’intero business mondiale.
Ma è solo con Attruia e il suo (rubato o copiato?) tappeto di Adro, il paese a marchio Lega Nord, che si innesca un secondo ragionamento. Un piccolo particolare. Eh sì, proprio come il monogramma della Louis Vuitton, di cui solo gli esperti riconoscono l’originale, c’è una piccola discrasia, che insinua il dubbio che la critica finisca qua, non sia diretta generalmente a un sistema economico mondiale, ma a qualcosa di più vicino, molto vicino. Girando un po’ per Asolo si scopre che il giorno dell’inaugurazione della mostra coincide con l’ultimo giorno dell’AIAF, storico festival dedicato al cinema d’arte (dicitura con un suo fascino storico), giunto ormai alla sua 30esima edizione.
Scelta apparentemente poco furba quella di fissare la vernice l’ultimo giorno della rassegna, perché implica di non godere dell’afflusso, sicuramente più cospicuo, durante la settimana del festival. Ma se si guarda un po’ più da vicino, se si apre la borsa e si scrutano le cuciture, la questione acquisisce senso: guarda caso, quest’anno il festival viene dedicato ad Ai Wei Wei, con un’intera sezione consacrata alla Cina e a Taiwan, e attesta la presenza di Jui-Jen Shih in giuria.
Alla luce del contesto – sì, proprio quello, lo stesso che fa la differenza nel vedere una Gucci sul bancone di un negozio in centro o spacciata in modo furtivo dal nigeriano in spiaggia – Made in China pare essere una critica verso una forma di fast culture, versione contemporanea, malata e facilitatoria dell’orientalismo di Said, che porta all’uso di codici, personaggi, vicende del lontano (non così tanto) Oriente come facile specchio per le allodole, per dar la parvenza di proporre qualcosa di diverso, innovativo… solo perché lontano geograficamente. Ma non è tutto olo, pardon, oro, quel che luccica.
Giulia De Monte
Asolo // fino al 25 ottobre 2011
Made in China
a cura di Daniele Capra e Maura Celant
[email protected]
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