Tra unità e frammento, semplicità e complessità; ma anche tra pittura e scultura, corpo e spirito. In tutta l’opera di Jacob Hashimoto (Greenlay, 1973; vive a New York) si assiste a una proliferazione espansiva dei pezzi che la costituiscono, degli elementi che la fondano. Elementi sempre leggeri, quasi aerei (piccoli aquiloni, aste di bambù, fili di cotone), ma anche elementi precisi, meticolosi, ricercati, capaci di creare il massimo con il minimo, di connettere mondi lontanissimi con i gesti più semplici ed elementari. Una comunicazione visiva mai frontale, ma sempre data da un raffinato gioco a nascondino: da sguardi in profondità, brevi epifanie, traslazioni continue (di forme, colori, esecuzioni).
L’opera risulta invariabilmente come qualcosa che si addensa, respira, si muove, quasi a formare, letteralmente, lo spazio, a materializzarlo. Pellicola dopo pellicola, velo dopo velo, fino a formare un’immagine che è sempre molte immagini, struttura che non sai mai dire se sprofonda o affiori, se si inabissa o ci sfiori. Direbbe il filosofo Merleau-Ponty: “Non la vedo secondo il suo involucro esteriore, la vivo dall’interno, vi sono inglobato”. È una visione che esige di essere praticata, esercitata, vissuta. Basta fare un passo indietro perché l’intero spazio sembri scosso: piccole tessere colorate si spingono in avanti, altre si allontanano e si ritirano al limite della parete. Gli stessi titolo delle opere (Imminent Departures and Arrivals o Connection and Obstacles) testimoniano la maniacale ricerca da parte dell’artista di elaborare uno spazio pieno di illusioni , nascondigli, ambiguità percettive, se non addirittura il tentativo di “farci vedere dello spazio anche là dove non c’è”.
E sempre sul concetto di un’infinita pluralità coniugata all’interno di una dimensione unica si fonda anche la sconfinata installazione che dà il titolo all’intera rassegna, e cioè Armada: un’autentica flotta composta da più di 700 minuscole barche a vela di legno che ondeggiano mosse da fili come fossero marionette. Non si tratta di costruire una presenza per mezzo di un’operazione accumulativa e combinatoria di oggetti, come faceva il primo Tony Cragg, quanto di trascendere ogni idea di ponderalità, per mostrare una sorta di potenzialità interna alla stessa immagine, una sua fluidità che abbatte limiti, forme, materie. Qui conta proprio conseguire un disegno sterminato del mondo, con la sua vocazione di perenne metamorfosi o, come direbbe lo stesso artista, “con il suo stato di eterno processo e di inesauribile movimento”.
Luigi Meneghelli
Verona // fino al 17 settembre 2011
Jacob Hashimoto – Armada
a cura di Leah Ollmanwww.studiolacitta.it
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