Giuseppe Uncini. I primi e gli ultimi: il titolo della mostra organizzata al CIAC di Foligno è già una dichiarazione programmatica. I curatori, Bruno Corà e Italo Tomassoni, hanno infatti puntato i riflettori sulla produzione degli esordi e su quella tarda dell’artista, nato nelle Marche, transitato a Roma e poi fermatosi in Umbria.
Quella di Giuseppe Uncini (Fabriano, 1929 – Trevi, 2008) è una storia d’amore con la materia, e in particolare con due elementi: cemento e ferro. Il background è quello delle sperimentazioni postdadaiste di Kurt Schwitters e del “sincretismo” polimaterico di Enrico Prampolini, che nella prima metà del Novecento tracciarono la via poi ripresa dai protagonisti della stagione informale. Fra questi, uno dei migliori è senz’altro Alberto Burri; ed è da lui, conosciuto agli inizi degli anni ’50 a Roma, che Uncini prende le mosse. I primi lavori avrebbero quasi bisogno dell’esame del Dna per stabilirne la paternità: la firma è di Uncini, l’influenza è innegabilmente burriana. Basti guardare Terra, opera del ’57 che attesta la sensibilità per la materia, con tanti omaggi al maestro di Città di Castello.
Ma Uncini dimostra di saper andare oltre. Aggiungendo alle sue Terre delle “spruzzate” di cemento, l’artista individua l’elemento che, in seguito, ne determinerà la cifra stilistica. Terra e cemento iniziano così a fronteggiarsi. Inizialmente è ancora la natura ad avere il predominio all’interno del campo operativo (Terre, ‘57); si passa poi a un pareggio sostanziale (Terra, ‘58), fino a quando, con una progressiva azione “erosiva”, è il cemento a occupare la quasi totalità dello spazio (Terra, ‘58).
Con la terra può bastare. Uncini passa definitivamente al cemento, anzi ai Cementarmati, tutto attaccato. “Il cemento armato è il simbolo stesso della potenza costruttiva dell’uomo contemporaneo e non un materiale deceduto”: è Enrico Crispolti, nel ’61, a leggere e interpretare la “svolta industriale” di Uncini di qualche anno prima. La dimensione del quadro scricchiola definitivamente; non c’è più la volontà di restituire un’immagine, quanto l’essenza stessa del materiale, la sua nuda apparenza (Primo Cementarmato, ’58-‘59).
Cemento, ferro e (talvolta) lamiera sono ora gli elementi compositivi d’elezione: Uncini ne fa intravedere le viscere, i nervi scoperti, restituendo il lato organico dei materiali (lo scheletro strutturale) e stemperandone il grigiore, la freddezza, l’esattezza industriale (si prendano Cementarmato e Cementarmato modulare, entrambi risalenti al biennio ’59-’60). Nello stesso periodo l’artista decide di dare un ulteriore slancio tridimensionale ai suoi lavori: episodi come Cementarmato (‘60) e Traliccio (‘61) testimoniano l’estensione spaziale delle opere e, nonostante risalgano a oltre quarant’anni prima, introducono nel migliore dei modi gli sviluppi conclusivi della produzione dell’artista.
L’ultimo Uncini, prendendo in considerazione il periodo dal 2004 al 2008, si confronta con le dimensioni ambientali, quasi preso dal desiderio di giungere a una definizione monumentale del proprio lavoro. Un artista che progetta come un architetto. L’intento costruttivo si manifesta in Epistylium (2004), opera nella quale Uncini raggiunge l’imponenza e l’essenzialità dei dolmen megalitici, non più in pietra ma in cemento: l’aumento della dimensione va di pari passo col rigore.
Le Architetture di Uncini sono dotate di un impatto silenziosamente avvolgente, edificato sui materiali di sempre, cemento e ferro. Ed è proprio negli ultimi anni che i due elementi trovano la loro rappresentazione definitiva: Architetture n.205 e n.213 (2006) sono vere e proprie messe in scena, al centro delle quali le luci sono puntate sul tondino di ferro, con le lastre di cemento a mo’ d’indispensabile quinta.
Le decine di pezzetti di ferro sporgenti non hanno nulla di ripetitivo o seriale, ma si mostrano nella loro unicità – nello scarto che permette di distinguere ogni singolo elemento – lasciando così intendere come Uncini avesse preso le debite distanze dal minimalismo statunitense.
L’estrema riflessione dell’artista è un ritorno alle origini: negli Artifici, accanto al cemento armato, compare nuovamente la terra, nel tentativo di sintetizzare la totalità della sua opera in un “frammento per il quale fino alla fine, ha pensato che non fosse mai detta l’ultima parola” (Italo Tomassoni).
Saverio Verini
Foligno // fino al 15 settembre 2011
Giuseppe Uncini – I primi e gli ultimi
a cura di Bruno Corà e Italo Tomassoni
www.centroitalianoartecontemporanea.com
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