Shimamoto: la furia del colore
La forza espressiva del gruppo Gutai arriva a Palazzo Magnani con la prima antologica di uno dei suoi fondatori, il più importante. Shozo Shimamoto si muove tra Oriente e Occidente attraverso passaggi performativi fondamentali. A Reggio Emilia, fino all’8 gennaio 2012.
“Io credo che la prima cosa da fare sia liberare il colore dal pennello”. Così afferma Shozo Shimamoto (Osaka, 1928) alla fine degli anni ’50, agli esordi della sua lunga carriera. Mentre trafigge la materia, il gesto rimane controllato secondo le regole del gruppo d’avanguardia Gutai (ovvero ‘concretezza’), che l’artista fonda nel 1954 assieme a Jiro Yoshihara, per sovvertire le regole della tradizione giapponese in nome di un’arte concreta.
Shozo Shimamoto ha sempre seguito una doppia tradizione: da una parte il ready-made di Duchamp e dall’altra l’irruzione del caso narrata nei libri di Carlos Castaneda. L’ha dimostrato anche durante la performance a Reggio Emilia, quando dall’alto di una gru, davanti a una folla numerosa e acclamante, ha gettato le sue bottigliette di colore a terra, su un telone che copriva l’intera strada.
L’esposizione a Palazzo Magnani ricostruisce il suo percorso artistico attraverso i due poli, quello orientale degli inizi e quello occidentale della maturità. Veramente sorprendenti le opere degli anni ’50, frecce a cera persa su carta, collage e buchi (Hole) che rimandano a quelli di Lucio Fontana – pur essendo più materici che concettuali – anche se i due non si conoscevano nemmeno. Per realizzarli, Shimamoto sovrapponeva la carta e con lo sfregamento di un corpo ruvido creava il buco.
Del 1956 è l’installazione Prego camminare sopra, esposta nella prima mostra all’aperto del gruppo Gutai, che invitava lo spettatore a muoversi su una sorta di tappeto destabilizzante. Modernissimo e ipnotico negli smalti su tela – Whirpool degli anni ’60 – e aggressivo nei Bottle crash, dove non c’è preesistenza progettuale ma soltanto puro gesto, mentre con lo pseudonimo Shozo Mou firma la serie dei Nyotaku, nei quali modelle stampano il proprio corpo sulla tela.
L’Occidente è rappresentato dalle performance pubbliche realizzate in Italia negli ultimi anni – da cui poi recupera le tele da esporre – come quella a Genova a Palazzo Ducale, alla Certosa di Capri o a Punta Campanella, vicino Sorrento, eseguita nel 2008, dove espone anche la statua di una falsa Venere di Milo e un Wedding dress.
Nel 1972, con la morte di Yoshihara, il gruppo si scioglie e Shimamoto si dedica alla mail art e alla creazione di una rete di artisti mondiale, per poi tornare sui suoi passi. “L’atto del dipingere è proporre un’espressione libera. Questo è il vero compito dell’artista”, dirà negli anni ’90, quando riprenderà, con meno aggressività rispetto al passato, i rituali di una gestualità interamente basata sull’impronta accidentale del colore.
Francesca Baboni
Reggio Emilia // fino all’8 gennaio 2012
Shozo Shimamoto – Opere 1950-2011. Oriente e Occidente
a cura di Achille Bonito Olivawww.palazzomagnani.it
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