Nella cripta, saturata dal rumore dei proiettori e dall’odore caldo delle pellicole, il visitatore segue un percorso in sette tappe, cercando una direzione al vagare, mentre il numero delle tappe, nello spazio dell’inconscio, si moltiplica all’infinito. Perché l’arte di João Maria Gusmão (Lisbona, 1979) e Pedro Paiva (Lisbona, 1977) rifiuta ogni fine didascalico o esplicativo, realizzando quella che Alberto Salvatori, direttore del Museo Marini, ha definito una pura “fenomenologia della visione”, laddove ciò che conta è già di per sé inscritto sulla superficie della retina. Il gioco ermeneutico poggia così su un paradosso di fondo, che propone allo spettatore una contraddittoria “didattica del mistero”.
Le sequenze di Gusmão e Paiva appaiono come “dimostrazioni sperimentali” di una fisica che non appartiene allo spazio del razionale; e la funzione di questi esperimenti percettivi diviene semmai quella di “aprire uno spiraglio nella percezione” (Nuno Faria). Esempio tipico è Dream of a ray fish, sequenza pseudo-ittiologica che descrive il trionfo della dimensione onirica, in un gioco dello specchio che rivela, distorce e annulla l’oggetto riflesso.
Nell’intrecciarsi di temi e proposte di riflessione, una (possibile) guida interpretativa è il concetto di movimento. Movimento meccanico, in primo luogo, della 16mm che scorre davanti all’arco voltaico; movimento ripetuto e sovrapposto di servomeccanismi, ruote e burattini; ma anche gesti di esseri umani (come in Getting into bed, che riprende la celebre sequenza fotografica di Muybridge), azioni di animali (Cowfish), raggi di luce (Heat Ray) e onde marine (Wave), protratte in slow-motion dilatati e analitici. E al culmine (o al principio) di questo processo giunge la stasi della forma: ideale momento di congiunzione con il museo “in superficie”, attraverso la scultura che apre la visita, concretizzazione del video Spaghetti Tornado.
In questa nostra “epoca della riproducibilità tecnica”, Gusmão e Paiva giocano con il suo strumento riproduttore primigenio, il cinema, privilegiandone però l’impatto diretto sulla materia, e suscitando nello spettatore il dubbio se l’evento cui partecipa sia nella realtà rappresentata o in quella percepita.
L’allestimento al Museo Marini si distingue per equilibrio e sobrietà, guidando il visitatore in un percorso suggestivo, ben calibrato nelle distanze e negli intervalli di luce e di buio. L’intento può dirsi pienamente raggiunto, laddove lo spettatore intuisce che il potenziale comunicativo di queste pellicole colte “dal vivo” non potrà mai essere eguagliato da una loro riproduzione, sia essa digitale, fotografica o anche, paradossalmente, filmica.
Simone Rebora
Firenze // fino al 14 gennaio 2012
João Maria Gusmão e Pedro Paiva – Non c’è più niente da raccontare perché questo è piccolo, come ogni fecondazione
a cura di Nuno Faria e Alberto Salvadori
MUSEO MARINO MARINI
Piazza San Pancrazio
055 219432
[email protected]
www.museomarinomarini.it
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