C’era una volta la fotografia giapponese
Una mostra eccezionale, la più grande e accurata mai vista in Italia sulla fotografia giapponese del periodo Meiji. Accompagnata da un catalogo altrettanto curato. A Venezia, nelle sale dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere e Arti, fino al 1° aprile.
Al visitatore che si appresti a visitare la mostra La Fotografia del Giappone suggeriamo, non appena sulla soglia, di pronunciare: “Mukashi mukashi”, espressione traducibile con il nostro “C’era una volta”. E la favola è servita.
Come avviene in ogni favola, anche questa possiede il suo fondo di verità, e non potrebbe essere altrimenti, considerato che fotografia in giapponese si dice shashin, cioè “copia dal vero”. Verosimile è infatti l’armoniosa linea “pagodica” del monte Fuji, la geometria astratta dei paesaggi boschivi e dei panorami urbani. Simile al vero è pure il lavoro degli uomini e delle donne nelle risaie e nei campi, dei venditori ambulanti, dei portatori di palanchini. Shashin è anche la “sublime bellezza” dell’universo femminile: donne dall’incarnato pallido e dalle vesti colorate, intente in occupazioni muliebri o alla toeletta, “cosini che si possono mangiare” nell’immaginario maschile occidentale. E pure “copie dal vero” sono i samurai, i lottatori di sumo e i preti shintoisti e buddisti. Tutto un mondo, insomma, che di fronte alla repentina modernizzazione del Paese ha voluto lasciare traccia perenne della sua tradizione e della sua storia.
Si tratta della mostra più esaustiva (dal punto di vista quantitativo e qualitativo) organizzata finora in Italia sugli esordi della fotografia giapponese durante il periodo Meiji ed è frutto di un’accurata indagine storico-critica della quale si dà conto nel prezioso catalogo (Ineffabile Perfezione: la fotografia del Giappone 1860-1910). La dovizia di testimonianze storiche, ideologiche, letterarie e tecnico- artistiche raccolte nei saggi critici di Francesco Paolo Campione e Marco Fagioli, anche curatori della mostra, non lascia spazio alle incertezze.
Dallo studio del rapporto tra la stampa ukiyo-e e la fotografia emergono contaminazioni e discendenze reciproche. È possibile trovare le opere della Scuola di Yokohama con il suo capofila il fotografo Felice Beato, e di tutti gli altri grandi protagonisti, sia stranieri, come Adolfo Farsari e il barone Raimund Von Stillfried-Ratenicz, che locali, quali il versatile Kusakabe Kimbei o il raffinato Ogawe Kazumasa, i cui collotipi, close-up di fiori finemente colorati, riprodotti con speciale tecnica priva di retinatura, impressionano lo sguardo.
E colpisce anche apprendere che nel laboratorio di Tamamura Kozaburo, per la coloritura delle albumine, venivano impiegati più di cento artisti, altamente specializzati e capaci di usare pennelli con un unico pelo.
Adriana Scalise
Venezia // fino al 1° aprile 2012
La Fotografia del Giappone (1860-1910). I Capolavori
a cura di Francesco Paolo Campione
Catalogo GAmm Giunti
ISTITUTO VENETO DI SCIENZE, LETTERE ED ARTI
Campo Santo Stefano 2842
199 199111
www.fotografiagiappone.it
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