Giuda il manichino
È un membro dei Mutoid. Lavora da vent’anni con robot costruiti con materiali di scarto. La sua è un’arte cinetica, ma che nulla ha a che fare con fredde installazioni scientifiche. È Giles Walker, in mostra alla Black Rat Press Gallery di Londra fino al 5 aprile. Per una Ultima Cena davvero particolare.
The Last Supper di Giles Walker (1967) è scultura e installazione teatrale.
La sala di Black Rat Press, voltata in mattoni grezzi, è buia e fumosa, come l’imbocco di una galleria, illuminata da una schiera di candele disposte a terra lungo il perimetro. Nel cortile del Cargo, da attraversare per raggiungere BRP, c’è gente seduta in giro a bere birra, sole caldo e aria di relax del sabato mattina. Dietro la tenda di velluto le cose cambiano. Nel silenzio, le note di un piano e la voce dei personaggi meccanici riuniti intorno al tavolo, quello dell’Ultima Cena.
Questa volta non è una normale visita a una preview d’arte: si è tirati dentro la scena teatrale appena si sposta la tenda. C’è il tavolo, ci sono le figure meccaniche intorno, e basterebbe; ma intorno al tavolo e alle figure, la gente in piedi è come calamitata, gli si muove intorno, e la cena da tredici diventa un party collettivo, dove si guarda attraverso: si guardano le teste dei robot e si “traguardano” le facce di quelli che stanno dall’altra parte del tavolo, assorti a comprendere ogni dettaglio, a cercare di capire i nessi, le relazioni fra tante, troppe cose, troppi significati disposti sopra, intorno, “dentro” quel tavolo.
A capotavola, verso l’ingresso, è seduto il capitano con un cappello da aviatore in testa e una torcia in mano, l’unico dei tredici che volge le spalle alla “tavolata”. Giles ci dice che è in vedetta a cercare la direzione di una nave immaginaria che ha perso la rotta. Al suo opposto, al comando del timone, è seduto l’ospite, colui che ha organizzato la cena, ultima e primordiale. È in canotta bianca, ha una bottiglia in mano, come a mescere vino. In realtà quel vino finisce per terra, sul tavolo, imbratta tutto, ne va poco nei bicchieri. Cinque di qua e cinque di là gli altri commensali, Giuda Iscariota è in piedi sul tavolo: come una grande bambola bianca, ha sembianze di un bambino e grandi forbici in mano. “Names, give me names. They’re liers, they’re fuckin’ liers”, si sente la voce di qualcuno dal tavolo. Sulle note del piano.
Tre scene in una: la struttura portante dei tredici meccanizzati intorno al tavolo; il flusso continuo degli avventori umani in moto rotatorio variamente addensato, intorno a quel tavolo. E la terza scena – terza solo perché se ne percepisce la portata dopo qualche giro – allestita “sul” tavolo, in una serie di episodi (crudi, violenti) con protagonisti mostri-ominidi-uccello in miniatura.
Per Giles Walker è la scena più importante: “L’Ultima Cena è uno snapshot di come io vedo la religione nel XXI secolo. Una riflessione fatta in particolare sui bambini, su come la religione tratta i suoi figli e il ruolo che tutti sono costretti a giocare all’interno di quelle regole. Mi sono chiesto se una dottrina religiosa che assume come suo riferimento il senso di colpa, e minaccia poi la violenza e il dolore come una giusta punizione, sia una buona educazione per un bambino”.
C’erano bambini intorno al tavolo – veri, accompagnati dai genitori – curiosi e giocosi. Una di loro armeggiava con un robot, gli faceva cenno di muoversi come davanti a uno schermo sensoriale, come con una stazione kinetica, come di chi conosce solo il touchscreen.
Il comunicato stampa per la preview dice che visitare l’Ultima Cena lascia un effetto duraturo su coloro che hanno l’opportunità di viverla. Effetto che, nel tempo che segue, prende forme diverse: il buio in cui avviene la sosta dà uno sfondo onirico alle cose. Ritornano confusi i volti dei robot e le scene drammatiche degli ominidi ornitologici sparsi sul tavolo, tutto sfumato sullo sfondo dei volti degli spettatori. Come fantasmi, una ragazza dai capelli rosso fragola e un tizio che guardava di sbieco tracannando birra. A intermittenza tra i volti si aggirava l’artista che (ci) osservava: noi e la sua opera tragica, frutto di un anno intero di lavoro.
Nella Classe Morta di Tadeusz Kantor non c’è una vera e propria storia e i personaggi sono strumenti per evocare, struggenti e comici, il dramma. Anche Kantor fabbricava bambole quando decise di fondare il suo Teatro Indipendente. Giles è “maestro, scultore e genio” (sono parole del regista Ken Russel) che fabbrica uomini/monito a transistor con materiali che gli uomini/umani gettano via per passare oltre.
Emilia Antonia De Vivo
Londra // fino al 5 aprile 2012
Giles Walker – The Last Supper
BLACK RAT PROJECTS
Arch 461, 83 Rivington Street
+44 (0)207 6137200
[email protected]
blackratprojects.com
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