Integrata con la Biennale Vie della Seta, sostenuta esclusivamente da finanziamenti italiani ma promossa dai Gao Brothers – reduci da Ravello, Brindisi, Venezia – (Un)Forbidden City punta i riflettori su progetti spiccatamente individuali, autonomi rispetto alla contemporaneità internazionale, di cui assumono i linguaggi più che i contenuti.
Metafora è la zona inaccessibile del castello dell’imperatore, nel cuore di Pechino, con l’inciso di una parentesi, perché l’arte cinese puramente di ricerca, oggi, è ancora borderline, sospesa tra un’ostinata libertà d’espressione e una repressione governativa ancora restrittiva, tanto da imporre senza plausibili motivi la sostituzione di alcuni lavori selezionati. Così, queste nuove generazioni – che popolano la libera “città (non) proibita” del 798 di Pechino – continuano a cercare nell’arte uno strumento mediatico e politico non più filtrato dai simboli o feticci del “Political pop” del dopo Mao, ritracciando le tappe dell’esperienza perduta, percorso pallidamente avviato in senso transnazionale con Den Xiaoping, per quel risultato identificabile nel consunto aggettivo di “glocale”.
A Testaccio, Zhen e Qiang Gao e i loro figliocci riescono in effetti a offrire quel tassello mancante tra un “passato remoto obliterato e presente sfocato” e, in questo, i secondi sembrano surclassare i maestri, che hanno preferito la penombra di opere d’impatto discreto – la Cina-Alveare di Outerspace project, la nuvola atomica di The new Word of Nuclear, i celeberrimi nudi di The sense on space – esplodendo nella storica performance dell’utopico abbraccio collettivo che, in piazza del Popolo, alla luce dell’omicidio dell’immigrato cinese e di sua figlia, assume tutt’altro peso.
Negli otto outsider, di estrazione multigenerazionale, da segnalare alcuni cicli fotografici: gli scatti di Lu Fei Fei sul tristemente noto controllo delle nascite; quelli magici di Chang Lei, con l’elefante immerso, allusivo una Cina-palude che tutto inghiotte; i ritratti doppi di stralunati mendicanti, ai quali Gao Shen regala una rispettabile identità artificiale. Intrigano le suppellettili trasparenti di Sun Lei che alludono allo screening estremo di ogni punto di vista personale; forte, il liquido seminale disperso da Sun Ping, da militare, su lenzuola esposte come sudari.
Su tutti, i sublimi mix-media in lightbox di Shen Ruijun, che narrano meticolosa manualità orientale come apertura fredda all’occidentale: vi si legge, nelle ombre la volatilità della memoria e, poi, la forza del segno, la poesia della luce, la violenza della frantumazione, l’isolamento dell’io, il vuoto dell’ignoto.
Giusy Caroppo
Roma // fino al 4 marzo 2012
(Un)Forbidden City. La post-rivoluzione della nuova arte cinese
a cura di Simona Rossi e Dominique Lora
Catalogo Damiani
MACRO TESTACCIO
Piazza Orazio Giustiniani 4
06 671070400
[email protected]
www.macro.roma.museum
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