Il plurale di Brueghel
L’ultima “Grande Mostra” su quel ramo del Lago di Como è dedicata alla dinastia dei Brueghel e alla loro famiglia allargata. Quattro generazioni di pittori per due secoli di pittura fiamminga, da fustigatori dei costumi a produttori proto-industriali di immagini. Fino al 29 luglio, negli ambienti neoclassici di Villa Olmo.
Il “modello Como” in fatto di mostre, molto fortunato in quanto a numero di biglietti staccati, si compone di fattori ricorrenti: la scelta di nomi storicizzati dal sicuro richiamo di massa; uno o due capolavori conclamati; qualche “scoperta” da collezioni private e/o pregevole dipinto poco noto e visto; molte opere di contorno di alterna qualità; una collaudata macchina da marketing nella logica del “grande evento”.
La dinastia Brueghel segue lo schema. Il capostipite Pieter Brueghel il Vecchio, il Brueghel per antonomasia, è rappresentato soltanto da una Resurrezione forse realizzata con aiuti della cerchia, sicuramente non annoverabile tra le sue prove più incisive. Il “colpo” è invece la prima volta in Italia de I sette peccati capitali, una tavola attribuita a Hieronymus Bosch e ultimo Bosch rimasto in una collezione privata.
Da qui l’esposizione si dirama ad albero (genealogico). Il figlio Pieter Brueghel il Giovane fu un abile divulgatore e monetizzatore del successo paterno, realizzando variazioni su tema e copie (tra le quali quasi cinquanta Trappole per uccelli, di cui due esposte). Se l’austerità icastica e la capacità di organizzare la scena in senso diacronico, come la concentrazione di un lungo piano sequenza, sono imparagonabili tra padre e figlio, sono altrettanto innegabili il dinamismo e l’ironia di Festa di matrimonio all’aperto, archetipo della pittura fiamminga più gaudente di donne, danze, vino e cibo.
L’altro figlio, Jan Brueghel il Vecchio, viaggerà in Italia, si legherà a Rubens apprendendone stilemi e organizzazione della bottega a modo di catena di montaggio e meriterà tanti appellativi quanti sono i suoi soggetti prediletti: “Brueghel dei fiori”, “Brueghel dei velluti”, “Brueghel del paradiso”… Molti i suoi dipinti a quattro mani, come la Madonna con Bambino in una ghirlanda di fiori (con Rubens) dove unisce il soggetto devozionale alla natura morta floreale affermatasi nel Seicento nei Paesi Bassi, anche come economico surrogato ai costosissimi tulipani che fecero impazzire (e quasi fallire) l’Olanda.
Cinquant’anni dopo la morte del primo Brueghel, siamo nel momento storico in cui la pittura fiamminga diviene eminentemente “di genere”: i cinque figli pittori di Jan si specializzeranno in nature morte, dipinti floreali, allegorie, paesaggi… Notevole I quattro elementi di Jan Brueghel il Giovane e Frans Francken, che compendia il gusto per una fauna e flora rutilante (e quasi fantasy nella tartaruga blu), giunoniche figure femminili di minor qualità pittorica come dee dell’abbondanza e sullo sfondo un paesaggio campestre raccolto e quieto. Altri fratelli di Jan il Giovane sono sconosciuti ai più e, osservandone i dipinti, probabilmente c’è una ragione.
C’è spazio anche per i parenti acquisiti: David Teniers, il pittore che fu cerniera tra il realismo popolare più dimesso e i mostri e demoni che scaturiscono dal sonno della ragione, e la sorpresa Jan Van Kessel I, affascinante pittore entomologo che appunta sui supporti più disparati (marmo compreso) coleotteri, pipistrelli e lucertole. Tra i dipinti più belli, anche se di difficile collegamento al nome Brueghel, la Lamentazione e un Trittico di Pieter Coeck Van Aelst, dove più che la cifra fiamminga è evidente il rigore tedesco di derivazione dureriana mitigato dai cromatismi raffinati dei panneggi e dallo sfumato di origine italiana.
Alessandro Ronchi
Como // fino al 29 luglio 2012
La Dinastia Brueghel
a cura di Sergio Gaddi e Doron J. Lurie
Catalogo Silvana Editoriale
VILLA OLMO
Via Cantoni 1
031 252352
www.grandimostrecomo.it
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