In questi giorni l’Emilia è scossa da sciami sismici che sconvolgono vite, città, monumenti, abitanti dei luoghi e spettatori inermi. Il terremoto del Belìce del 1968 fu il primo televisivo, quello che travolse interamente paesi e persone, che per molti anni cambiò il nome all’intera valle perché un cronista del Tg 1 lo chiamò Bèlice, spostandone l’accento, e di cui gli abitanti si riappropriano lentamente solo adesso.
La signora Rosa, residente a Poggioreale Nuova, ci accompagna fra i ruderi di Poggioreale Vecchia e racconta quant’era bella la chiesa e quant’era grande il teatro: “Cose così, con queste cupole e soffitti dipinti e belle statue antiche, non se ne fanno più adesso, ora è tutto nuovo, dovrebbero passare cento anni e sempre non sembrerebbero così belle”. E continua sostenendo che i governanti non hanno imparato niente dal “suo” terremoto, perché sennò i monumenti, le case, i capannoni del terremoto in Emilia non sarebbero cascati così, come carte da gioco, sopra le persone.
Insieme a noi passeggiano i ragazzi della Protezione Civile che sono tornati a Poggioreale Vecchia, dove non si potrebbe accedere perché le case ancora in piedi sono pericolanti, ma che il sindaco autorizza a visitare ancora per un giorno in occasione della mostra I fantasmi di Poggioreale. Ritorno alla vita del fotografo Ezio Ferreri, curata da Emilia Valenza e organizzata dal Museo Belìce Epicentro della memoria viva di Gibellina, che da anni s’impegna a preservare “viva” la memoria storica di questi luoghi, prima e dopo il sisma.
All’interno dei ruderi e sulle facciate delle case, Ferreri propone alcune gigantografie di oggetti d’uso quotidiano che lui stesso ha raccolto tra le macerie: barattoli da cucina, giochi di bambini, frammenti di vita. L’oggetto del passato, sublimato e protetto alla maniera del museo, reso romantico dalla sua rifunzionalizzazione, divenuto dentro una fotografia d’artista natura morta (come la chiamiamo in Italia) o still life (come la chiamano gli americani). Forse, il modo migliore di spiegare quanto accaduto alle generazioni che non hanno vissuto quegli anni, ma su cui l’ombra della paura ritorna dai tg, dagli speciali in diretta, dalle immagini e dalle notizie di giornali.
Una riflessione ancora una volta sulla ricostruzione dei luoghi, sulla ricerca d’identità degli abitanti, sulla necessità di ripensare alla vita dopo traumi e terremoti, offerto da questo incredibile angolo di mondo che è il Belìce.
A Poggioreale Vecchia, visitabile per un giorno, il fascino delle rovine (“esperienza del tempo puro”, come l’ha definita Marc Augé) e, otto chilometri più in là, Gibellina Vecchia sepolta dalla grande colata di cemento, pensata da Alberto Burri come sudario funebre sulle macerie a coprire le memorie e, insieme, a eternarle sotto la più grande opera d’arte d’Europa che è il Grande Cretto. Due modelli opposti ma convergenti di rinascita. In mezzo e intorno a Poggioreale e Gibellina ci sono i campi arati, i vigneti, le colline brulle, le grotte, le opere d’arte a cielo aperto di Salemi, Selinunte, Sambuca, Menfi, Roccamena, Santa Margherita, Camporeale, Salaparuta, Contessa Entellina, Partanna, Sciacca, Castevetrano, Santa Ninfa. Primi in Sicilia, a costituire una rete di musei belicini, con il Museo delle Trame della Fondazione Orestiadi capofila, grazie all’impegno di tutti i siti e musei della Valle del Belìce.
Questa occasione, con il sostegno di Legambiente Sicilia che quest’anno dedica la settimana di Salvalarte alla memoria di Ludovico Corrao, sollecita una nuova visione, solidale, integrata, partecipata di “memoria viva”. E, soprattutto, invita ancora una volta a ripensare alle strategie di tutela dei siti, delle città, dei beni culturali. Insegna che l’arte aiuta l’elaborazione dei traumi spiegando, anche attraverso i codici dei suoi linguaggi e dell’allestimento museale, i cicli di morte-vita, distruzione-ricostruzione, crisi-rinascita il passaggio dell’uomo sulla Terra.
Mercedes Auteri
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