Cinquanta opere dislocate in una decina di sale del Castello Aragonese a Otranto sintetizzano tutta la ricerca e l’estetica di Andy Warhol (Pittsburgh, 1928 – New York, 1987). È questa la sensazione che pervade lo spettatore appena terminata la visita della mostra I want to be a machine, aperta al pubblico fino al 30 settembre.
Una sorta di “bignami” della produzione artistica warholiana, ripercorsa in tutte le sue fasi, dai primi anni Sessanta alla fine degli anni Ottanta. La disposizione delle opere, provenienti da collezioni private italiane, segue l’ordine cronologico della produzione dell’artista statunitense. Si parte dalla serie Flowers, allestita nella prima sala, per finire con la serie dei dieci ebrei più famosi d’America, in chiusura. In mezzo a questi due estremi ci sono circa vent’anni di produzione, anni durante i quali cui Warhol tocca temi cruciali come il mito della bellezza, il consumismo, i simboli del potere.
Ad accoglierci, quasi al principio del percorso, è la celeberrima serie dedicata a Marylin, seguita dai barattoli di Campbell’s Soup, tra le prime opere che l’artista realizzò all’inizio del periodo eroico della Pop Art. Ma nella mostra non c’è spazio solo per le icone super famose. I want to be a machine, pur partendo da un’affermazione provocatoria dell’artista, che espresse la volontà di rendere “meccanica” l’arte, non dimentica gli aspetti meno noti di Warhol che attengono alla sua vita privata e alla sua personalità. Due sono le opere-simbolo del suo lato “più oscuro”: il ritratto di Sant’Apollonia e due dei quadri appartenenti alla serie dei dieci ebrei. Il ritratto di Sant’Apollonia “testimonia la fervida religiosità di Warhol, che andava a messa ogni domenica e che sosteneva organizzazioni religiose che si occupavano di emarginati”, ci spiega Gianni Mercurio, curatore della mostra. La sua religiosità deriva dallo stretto rapporto con la madre, di origine slovacca. “La serie che ritrae i dieci ebrei più famosi d’America invece”, continua Mercurio, “gli fece guadagnare gli strali della critica che lo accusò di volersi ingraziare le ricchissime lobby statunitensi per poter vendere i suoi quadri. In realtà nel periodo in cui quelle opere furono realizzate l’opinione pubblica americana prese posizioni molto nette contro lo Stato di Israele”.
Via via che ci avviciniamo alle opere degli anni Ottanta lo stile warholiano diventa più maturo, più ricercato sia dal punto di vista formale che dal punto di vista cromatico. La rivisitazione del quadro San Giorgio e il drago di Paolo Uccello segna un’altra tappa nella produzione dell’artista, che verso la fine della sua vita si dedica a una reinterpretazione del Rinascimento italiano.
A fare da cerniera tra le opere esposte ci sono, poi, qua e là, alcune frasi celebri del maestro della Pop Art. La mostra si apre con un emblematico aforisma: “Sono certo che guardandomi allo specchio non vedrei nulla. La gente dice sempre che sono uno specchio, e se uno specchio si guarda allo specchio che cosa può vederci?”.
Patrizia Capoccia
Otranto // fino al 30 settembre 2012
Andy Warhol – I want to be a machine
a cura di Gianni Mercurio
CASTELLO ARAGONESE
Piazza Castello
199 151123
[email protected]
www.warholotranto.it
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