Vesuvio, nuova eruzione. Al Getty
Gli ultimi giorni di Pompei a Los Angeles non sembrano avere una fine. L’innovazione di questa mostra svela un percorso del tutto nuovo e originale che passa dalla rappresentazione alla reinterpretazione. Da Jean-Auguste-Dominique Ingres a Mark Rothko, l’eruzione si adatta progressivamente assumendo nuovi significati.
Una mostra su Pompei. Cosa ci si deve aspettare? Sicuramente ritrovamenti preziosi, oggetti d’artigianato che rivelano le abilità creative di un popolo, quello Romano e Greco antico, che rimane alla base del nostro orgoglio mediterraneo. Che altro? Forse stanze ricostruite dalla Villa dei Misteri, con maestosi affreschi che rivelano la brillantezza della pigmentazione rubina (rosso pompeiano appunto), complesse lavorazioni a mosaico. Oppure esempi di edifici come Casa del Fauno, che riportate alla luce alla finalmente testimoniano le pratiche quotidiane, i rituali religiosi e quant’altro.
Niente di tutto questo. Eppure siamo al Getty Villa, museo ricostruito a copia della Villa dei Papiri e altre famose ville romane, che incarna l’omaggio alla classicità. Se volevate però un accenno della Pompei archeologica, dovevate andare al LACMA l’anno scorso e vedere la mostra Rosso Pompeiano. L’idea di Kenneth Lapatin, associate curator of antiquities al J. Paul Getty Museum va brillantemente oltre. Per la prima volta in assoluto, malgrado le infinite esibizioni dedicate al tema, viene presentata la più celebre eruzione vesuviana del 79 d.C. attraverso la ricezione sia classica che moderna.
L’esposizione è stata organizzata in un percorso che prevede tre temi principali: la decadenza, l’apocalisse e la resurrezione. L’idea è di riflettere, attraverso il concetto della distruzione, sulle dinamiche con cui il passato viene adattato secondo le necessità del momento, come spiega Kenneth Lapatin aggiungendo inoltre che il museo stesso che ospita la mostra è un esempio perfetto, dal momento che è una ricostruzione re-immaginata di una villa distrutta dal Vesuvio. Le tre sezioni pensate per questa mostra quindi sono una specie di percorso che spazia da dipinti neoclassici, barocchi, preraffaeliti a oggetti trovati nei siti archeologici fino a includere l’evento nell’immaginario modernista e quello contemporaneo.
Elementi decorativi e architettonici specifici e fedelmente riprodotti sono mischiati a romantiche e sensuali scene dal decadentismo di Lawrence Alma-Tadema. Così come una collezione di foto, alcune provenienti proprio dall’archivio personale quest’ultimo, in cui dei giovani adolescenti svestiti sono ritratti tra alcune delle rovine più note del sito archeologico. Meno romantica e con un sottofondo moralista, invece, la tela di Francesco Netti (1832-1894) in cui, dati gli eccessi e la dissolutezza dei romani, la catastrofe è presentata come una punizione divina.
Da questa che è la sezione dedicata alla Decadence si passa a quella dell’Apocalypse, in cui la mostra esplora come la catastrofe del 79 d.C. sia rimasta l’evento simbolo e archetipico dei disastri accorsi durante i secoli e in epoca moderna, soprattutto in relazione al trauma post-atomico. Tra tutti spicca un meraviglioso acrilico di Andy Warhol in cui, mettendo insieme stile grafico e un contrasto di colori forti come il rosso e il viola, riflette sulla serialità e la capitalizzazione dell’immagine, in pieno spirito pop. Continuando sul tema della riproducibilità, un complesso sculturale di Allan McCollum, The Dog from Pompeii del 1991, attira l’attenzione nel largo corridoio del museo. Una serie di calchi, ispirati dalla famosa fotografia – Cast of a Dog Killed by the Eruption of Mount Vesuvius, Pompeii del 1874 di Giorgio Sommer – posta attiguamente riproduce un cane in torsione pietrificato dall’eruzione. La stessa foto è presente nella grande tela fitta di diversi media di Robert Rauschenberg. Tra le opere più astratte c’è anche una delle grandi tele del 1959 di Mark Rothko in cui una forma rettangolare rosso vivo si alterna ad altra di rosso sangue, accentuando una verticalità quasi opprimente.
L’ultima delle sezioni, Resurrection, indaga su come molti elementi iconografici puramente immaginati siano entrati nel vocabolario artistico e non solo. Gradiva è l’esempio più interessante. Tre opere d’arte una accanto all’altra su una parete. La prima è un bassorilievo di inizio Novecento in cui una donna, sollevando le vesti, è rappresentata mentre cammina. L’opera diventa inspirazione per una storia pubblicata su un giornale austriaco da uno scrittore tedesco. Questa diventa oggetto di studio per Sigmund Freud, che la trasforma in una metafora di feticismo sessuale e, inevitabilmente quindi, entra a far parte del linguaggio surrealista. L’opera adiacente è infatti un’interpretazione di Gradiva di André Masson del 1939 e quella ancora accanto una di Salvador Dalí del 1931-32.
Insomma, ce n’è un po’ per tutti i gusti, a chi piace classico a chi moderno, per chi è un amatore o per chi è un intellettuale. Alla fine il successo di questa insolita mostra non sta solo nella scelta intelligente di opere magistrali, ma nell’efficacia con cui la sconnessione apparente stimola a rivalutare l’impatto della rappresentazione e la complessità della percezione dell’opera d’arte.
Leonardo Proietti
Los Angeles // fino al 7 gennaio 2013
The Last Days of Pompeii: Decadence, Apocalypse, Resurrection
a cura di Kenneth Lapatin
J. PAUL GETTY MUSEUM – GETTY VILLA
www.getty.edu/art/exhibitions/pompeii/
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