Dalle primissime opere di uno studente di orticoltura affascinato dal concetto di innesto agli attuali cantieri, che riproducono serialmente la stessa opera fino ad arrivare alla versione perfetta: la retrospettiva Bertrand Lavier, depuis 1969 non è solo un momento di riflessione sul lavoro di un artista che a partire dagli Anni Ottanta ha dominato la scena artistica europea, ma anche sul concetto stesso di retrospettiva. L’esposizione è infatti assai lontana dai canoni classici di ricostruzione cronologica, esaustività e completezza: “Sembra che tutte le opere siano datate 2012, e alcune sono più provocanti oggi che vent’anni fa. Sintomo che viviamo in un’epoca conservatrice”, spiega l’artista in un’intervista ad Art Press.
Divisa per sale tematiche, l’esposizione inizia infatti con Baft III, opera del 2011 ispirata agli Shaped Canvas di Frank Stella, e termina con Premiers travaux de peinture, del 1969. Benché ogni tema trasmetta con nitidezza i fulcri creativi dell’artista (1+1, Le cose e le parole, Dopo il ready-made: la forma, l’emozione…), si legge in sottofondo un unico intento: sviluppare una riflessione artistica che consista in un veritiero equilibrio tra l’universo del pensiero e del visivo, che induca alla riflessione tramite i concetti di trasposizione, innesto e ibridazione.
Senza voler ridurre la produzione di Lavier a un’evoluzione del concettualismo e dell’attenzione duchampiana volta all’oggetto e alla sua riproducibilità, è innegabile che molte delle sue opere si pongano in continuità rispetto al pensiero concettuale, che Lavier cerca di sviluppare (e superare) restaurando in esso la presenza di un’emozione forte e la messa in causa del principio di identità. In che modo? Tramite la procedura dell’innesco, ovvero l’ibridazione di elementi eterogenei, l’attivazione di concetti contrastanti, di più significati all’interno della stessa parola.
Se per Duchamp l’oggetto era qualcosa di neutro, freddo, industriale, con Giulietta (1993), la macchina distrutta dopo un incidente, o Teddy (1994), uno sciupato peluche, gli oggetti rappresentano non solo se stessi ma la loro storia, diventano la traccia del loro passato; è successo qualcosa dal momento della loro produzione ad oggi, di cui nulla possediamo se non indizi.
Se il ready made elevava l’oggetto semplice a opera d’arte, in Brandt/Haffner (1984) è la sovrapposizione di un frigorifero a una cassaforte ad attivare, tramite una desueta armonia visiva, la macchina significante. In Husqvarna/Art déco (2012), invece, uno spazzafoglie fluttua sopra un mobile déco Anni Trenta. “Quasi un secolo separa questi due oggetti, eppure stanno cosi bene assieme! Come se si stessero aspettando, se si fossero dati appuntamento”, commenta l’artista. Steinway en sons (1987) è un pianoforte dipinto da pianoforte. Le pennellate evidenti, risolute, trasformano l’oggetto, tramite la sua stessa rappresentazione pittografica, in qualcosa di sconosciuto. Anche le statuette africane in legno che Lavier immerge nel bronzo, facendole divenire contenuti per un ipotetico museo archeologico del futuro, partecipano alla stessa trasposizione (Mamba, 2008). Se prima l’arte doveva decidere se rappresentare qualcosa o presentarla, con Lavier entrambi gli stati di cose si attivano contemporaneamente.
È una produzione artistica che diverte, sorprende, destabilizza i generi e dialoga in maniera sottile con la storia dell’arte; perché, come sostiene Lavier, un’opera resta viva nel momento in cui può essere l’oggetto di una trasposizione. È semplice ed efficace come una legge della natura, e allo stesso tempo superbamente concettuale.
Greta Travagliati
Parigi // fino al 7 gennaio 2013
Bertrand Lavier, depuis 1969
CENTRE POMPIDOU
www.centrepompidou.fr
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati