La Povera Italia in mostra a Basilea
Il Kunstmuseum di Basilea dedica una retrospettiva all’Arte Povera ed espone un centinaio di opere provenienti dalla Sammlung Goetz. L’obiettivo è far riscoprire alle nuove generazioni di artisti un’epoca talora trascurata dalla storia dell’arte. Cento opere da vedere fino al 3 febbraio.
Alla fine degli Anni Sessanta, disilluse le aspettative fomentate dal miracolo economico, l’Arte Povera nacque in un Paese povero. L’Italia, che per oltre un decennio aveva sperato di poter divenire ricca inseguendo il modello americano, dopo anni di duri sacrifici e investimenti non era riuscita a sviluppare pienamente i meccanismi interni della propria dinamica democratica. È questa, in sintesi, la puntuale analisi storica delle premesse alla nascita del gruppo di artisti oggi noto sotto l’etichetta di Arte Povera che Angela Vattese propone nel suo contributo al catalogo della retrospettiva Arte Povera. Der grosse Aufbruch, allestita presso il Kunstmuseum di Basilea.
In mostra fino a febbraio, un centinaio di lavori fra disegni, sculture, fotografie e installazioni, cronologicamente riferibili al ventennio compreso tra la fine degli Anni Sessanta e l’inizio dei Novanta, e soprattutto concentrati intorno alla prima fase del movimento. Tutte le opere esposte provengono dalla Sammlung Goetz di Monaco di Baviera, una delle collezioni d’arte contemporanea fra le più ricche e celebri al mondo. Si tratta di un evento senza precedenti, concepito e organizzato congiuntamente dal curatore svizzero Bernhard Mendes Bürgi, il direttore del museo basilese, e dalla tedesca Ingvild Goetz, proprietaria e iniziatrice della raccolta omonima. L’obiettivo, come auspicano gli organizzatori, è di mettere in evidenza il ruolo fondamentale svolto dall’Arte Povera per le più giovani generazioni di artisti.
Fra i primissimi entusiasti collezionisti del movimento, Ingvild Goetz rimase affascinata dal gruppo di artisti italiani all’inizio degli Anni Settanta, ovvero in un’epoca in cui la Germania era teatro di atti terroristici sanguinosi. Vi si stavano allora vivendo trasformazioni sociali e politiche che trovavano la propria corrispondente italiana nel desiderio manifestato dall’Arte Povera di rompere con il passato e con l’emulazione dell’altro, per aprire piuttosto la strada al nuovo e all’autenticamente nostrano. Del resto l’Arte Povera, per usare le parole di Carolyn Christov-Bakargiev, è anche una “metafora della libertà”.
Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Pier Paolo Calzolari, Luciano Fabro, Jannis Kounellis, Mario Merz, Giulio Paolini, Pino Pascali, Giuseppe Penone, Michelangelo Pistoletto, Emilio Prini e Gilberto Zorio furono i protagonisti di questo rinnovamento artistico la cui forza risiedeva in un desiderio tanto antitetico quanto catartico di ritornare alle proprie origini culturali e naturali. Il nome del gruppo di artisti si deve al titolo dell’ormai celebre mostra genovese curata da Germano Celant alla Galleria La Bertesca nel settembre del 1967 e all’articolo dello stesso autore, Arte Povera: appunti per una guerriglia, apparso poco dopo sul numero 5 di Flash Art. E proprio Celant sarà al Kunstmuseum il prossimo 17 ottobre per parlare di Arte Povera al pubblico della mostra.
L’esposizione si apre nel foyer del museo, al primo piano dell’edificio, con uno straordinario gabinetto fotografico firmato da Giorgio Colombo, Paolo Mussat Sartor e Claudio Abate, vero e proprio atlante della memoria storica dell’Arte Povera che raccoglie alcune delle performance fra le più iconiche degli artisti del gruppo, come i Dodici cavalli vivi (1969) di Kounelis alla Galleria L’Attico di Roma. Fra i pezzi forti in mostra si annoverano poi una serie di tre autoritratti a olio di Pistoletto (1959, 1961, 1961), pendant giovanile ai suoi più famosi specchi, fra i quali spicca qui L’Etrusco (1976): calco in gesso di una statua antica che, come noi che la osserviamo, si riflette nel grande specchio a parete rendendo così possibile l’incontro effimero fra passato e presente.
Anche Liberta o Morte W Marat W Robespierre (1969) di Kounelis gioca con le citazioni colte e la memoria collettiva, richiamando immediatamente alla mente il celebre dipinto di Jacques-Louis David, La morte di Marat (1793): la candela bianca che arde perpetua di fonte alla “lavagna” nera pare essere un inno alla rivoluzione e memento mori allo stesso tempo. Più storicamente connotata, sebbene oggi più che mai attuale, è invece L’Italia d’oro (1971) di Luciano Fabro, sagoma aurea della Penisola impiccata al soffitto del museo, il cappio stretto intorno alla Calabria, le due isole maggiori maldestramente applicate come toppe sul verso. Suicidio o esecuzione? Il significato dell’opera, che pure rimane oscuro, si carica di nuove connotazioni al cospetto della situazione economica in cui versa oggi il Bel Paese. Ma a giudicarlo ci pensa per il momento ancora L’occhio di Dio (1969), l’altra opera di Fabro esposta nella medesima sala.
Adoperando mezzi semplici e poveri come la terra, il vetro o il legno, gli artisti del gruppo hanno costruito con le loro opere rivoluzionarie nuovi campi semantici a partire dalla contrapposizione dei contrari, risolti allo scopo di strappare l’arte dalla torre d’avorio in cui rischiava di restare intrappolata nell’era dell’individualismo eccentrico per mischiarla invece al tessuto sociale e urbano, insomma per avvicinarla alla vita. Un approccio che grida al rinnovamento e ricomincia dalla natura e dalle sue componenti. Un’arte della terra – o della Terra? -, come nel caso della celebre Mappa (1988) di Boetti; un’arte fatta di superfici che si vorrebbero toccare e di odori che si guardano, come accade con Patate (1977) e Unghia e foglie di alloro (1989), entrambi lavori di Penone che giocano sulla relazione mimetica e la contaminazione fra elementi naturali e artefatti artistici; un’arte costruita con percorsi luminosi e rifugi accoglienti, come il Crocodilus Fibonacci (1991) e l’Igloo (1984 e 1992) di Merz, metafore della relazione poliedrica che lega natura e cultura e dell’interferenza dell’uomo con i processi naturali. Un’arte di tutti perché di nessuno, un’arte povera, appunto.
In un’epoca dominata dagli eccessi – dalla chiassosità cromatica della Pop Art all’epurazione totale della Minimal Art e alla cancellazione dell’artefatto artistico praticata dal Concettuale – l’Arte Povera scelse di aderire alle immagini, dimostrando con orgoglio il rispetto della propria cultura, per quanto fragile, arretrata e compromessa essa potesse essere. Cinquant’anni dopo sono cambiati gli attori, ma la storia sembra ripetersi uguale a se stessa. Auspichiamoci dunque che la riscoperta dell’Arte Povera e la mostra svizzera non ispirino soltanto i giovani artisti a recuperare i valori più autentici della nostra Italia d’oro.
Valentina Locatelli
Basilea // fino al 3 febbraio 2013
Arte Povera. Der grosse Aufbruch
a cura di Bernhard Mendes Bürgi
Catalogo Hatje Cantz
KUNSTMUSEUM BASEL
St. Alban-Graben 16
+41 (0)61 2066262
www.kunstmuseumbasel.ch
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