Le impertinenze di Alessandro Bergonzoni
Autore, attore, artista: Alessandro Bergonzoni è una personalità vasta e poliedrica. Un negoziatore contemporaneo che si esplicita attraverso differenti linguaggi e necessarie contaminazioni. È in mostra a Milano da domani, da Fabbri Contemporary Art. Poi si sposta a Berlino. Lo ha intervistato per Artribune Martina Cavallarin, curatrice dei due eventi.
La tua arte attraversa di continuo il bilico della soglia, le zone liminali e residue senza soluzione di continuità, passando dalla parola detta alla scultura plasmata, dalla recitazione autoriale alle incursioni negli sconfinati cerchi dell’esistenza. Che non è un contenitore a compartimenti stagni, bensì una sfera dell’oltre in cui le intersecazioni sono infinite. Dalla malattia alla coscienza civica, dall’etica alla partecipazione condivisa, dall’umano al sovrumano, tutto converge nella rivelazione estetica del gesto o della parola o dell’opera. Senza distinzioni.
L’artista non può far finta. Né far finta di niente: quindi l’errore sta nel non credere che si possa fare tutto. Certo è meglio non confondere onnipotenza con onnipossenza, superbia con propulsione, ma tutto ciò mi serve per sottolineare che per il corso della vita non basta iscriversi o partecipare (gli iscritti che poi muoiono nel corso della vita dovrebbero pagare prima? o pagan dopo appunto morendo?), ma si deve appunto fare l’impossibile, cominciare tutti gli altri mestieri, le altre vite. Diventarne i gangli.
Mi si lega spesso a una perversione soprattutto linguistica ma il punto sta in quello che ci sta sotto questa punta dell’iceberg che poi è quello che presagisce al gran resto, a ciò che muove l’andirivieni da un’arte all’altra, con l’insaputa che ti permette e promette di non lasciarti più solo, e nemmeno più sicuro di essere solo ciò che credevi. Le soglie non centrano con le porte o le loro chiusure, ma con l’oltrepasso e un aldilà continuo e veemente, che non puoi e non devi controllare, altrimenti svolgi solo un compito e non i daimon…
Tutto torna come dopo, mostra personale che inauguri alla Galleria Fabbri Contemporary Art, dopo aver mappato una buona parte d’Italia esponendo a Bologna, Napoli, Biella, Venezia, approdi a Milano.
Prima volta a Milano e quindi curiosità verso la città che non ha mai visto cosa faccio nell’arte e che si aspetta il teatrante o lo scrittore ma non immagina né il contagio né gli effetti del presagio. La Galleria Fabbri non mi ha cercato a scatola chiusa, ma dopo avermi seguito in studio e visto fare, mi ha messo in condizione di atterrare con i mezzi che volevo senza pormi limiti di scavo o di strato, facendo i capire quando è se il momento era giunto.
Una tua frase racchiude il senso dell’intero lavoro project specific e il tuo percorso d’artista: “Pezzi: di prima, (da prima), divisioni solo cronologiche, interamente tratte, e già l’intero sapeva d’esser fatto, a pezzi, quando lo si costruiva”…
Si vuole sempre che tutto torni come prima. Dopo un terremoto dopo una malattia o un evento traumatico, ma quel prima è già fatto di infiniti pezzi di dopo, di una mole di frammenti di poi che non riusciamo a vedere né accettiamo di conoscere, per quella maledetta aspirazione al certo e alla sicurezza che fa’ stagnare ogni barlume di rinascita crescita evoluzione scompaginazione che ci rende potenti dimenticando finalmente il tale e quale mortifero e ferale. Tornare al dopo è questione di altro cercato di passato ma prossimo di nuove aureole quindi di cerchio che si chiude, un a tutto tondo. Mi piace pensare all’arte come appunti di non ritorno.
Il rapporto tra questioni pubbliche e private, l’arte relazionale, interruzione e ricostruzione, l’identità umana come qualcosa di non uniforme: di questo, o anche di questo, ci parlano Pindarici, Atlantideo, Scrittura piovana, ovvero alcune delle sculture a parete concepite per questa mostra.
In mostra ho portato degli esempi di quanto detto, delle opere che però non racchiudono soltanto ma trapelano, lasciano al tempo i prossimi ruoli, come un’incombenza: il vetro che raccoglie piccioni vestigia o volo fermo deciso da fari e fumi, cemento che scende su di una testa che non ne vuol sentire il peso ma la posa, sprofondando il resto del corpo nel pavimento che lo blocca; grondaie che incanalano la scrittura e con l’aiuto della ruggine (che altro non è che tempo che mangia) ne fanno leggere ennesimi brandelli, piccole frasi, come se quello che esprimiamo non fosse che una minima parte di quello che potremmo dire o far vedere…
Ogni artista visivo necessariamente lascia che siano le opere a esprimersi quando le abbandona allo spazio condiviso, allo sguardo, al rapporto di simpatia dell’altro, al visitatore. Quando l’assenza rende l’opera definitivamente autonoma, l’artista soffre di gelosia o senso del possesso?
Troppo facile il senso del possesso per l’artista, quella retorica maledizione fatta di “non me ne voglio staccare, è mio”. Direi nemmeno gelosia: avverto piuttosto un senso di golosità, di voglia di ancora e ancora che mi prende e mi fagocita, una specie di altra specie, una razza di fame pregressa di progressiva salivazione mentale, un’acquolina in altra bocca, che mi fa venire fame atavica, ma futura, come dopo.
In programma a gennaio la tua prima mostra all’estero, Data On Imperfection, alla Factory Art di Berlino con Gianni Moretti e Maria Elisabetta Novello. Differente radice etimologica ma costante e urgente necessità di scavare nell’imperfezione come possibile del senso e condizione altra, errore che si espande e crea altri piani, sedimentazioni e spazi di vissuto…
Fuori dall’Italia davvero per me una grossa novità e un salto nel pieno: poter vedere come i miei lavori siano tradotti da chi non aggiunge alle mie opere la mia storia di personaggio pubblico mi elettrizza. Porterò una specie di “antologica”, man non proprio, studiata e allargata, pezzi che “riesumano” questi pochi anni di ricerca e di strati, installazioni e anche disegni, tele: mi basterebbe decidere le convivenze tra le imperfezioni che animano l’opera, la caccia all’errore, ma senza farne una preda, anzi, piuttosto un animale da riporto, come se ci fosse qualcuno che mi restituisce le precauzioni prese mentre creavo, durante l’invenzione, quando ancora i piani erano da sconvolgere e l’imprecisione viva e vegeta pronta pure a mettere al mondo chissà quanta prole.
Come vivi il rapporto con lo spazio, quello del tuo studio, quello in cui la temperatura fredda degli oggetti comuni, trovati e recuperati nella tua pratica di postproduzione si trasforma in temperatura calda sotto le tue mani, intelligenza d’artista?
Se l’anima ha uno spazio e viceversa, è da lì che penso un artista debba prendere le movenze, è da quel luogo a procedere che nasce il processo delle e alle cose, anche se so che la parola anima è sentita in questo mestiere o infelicissima o felicissima, ma non me ne preoccupo più perché la genesi spirituale dell’arte non riesco proprio a metterla in discussione; quindi il mio vero studio, il laboratorio delle mani e del loro proliferare è quello, è il più largo laddove, l’ambito, la zona, il procinto, e comprende anche il recupero e le sue temperature, il sopra e il sotto lo zero, il clima antroposofico che viene a creare i nel mentre (il mentre: altro atto subliminale senza il quale la mole e il suo lavoro non crescono, né verticalmente ne orizzontalmente).
Vorrei toccare il tema dell’utopia. Utopia è una parola difficile e pericolosa, un territorio in cui si eliminano le differenze, si omologano le cose. Ma questo perché per troppo tempo si è pensato alle grandi utopie; a me piace pensare di tornare alla misura d’uomo, quella che poi riconosco come misura massima, extralarge, che può generare il cortocircuito e alimentare la velocità intesa come velocità della mente e profondità del pensiero…
Chiaro che da quello che ho espresso prima non può non decollare la parte utopica di chi prova la speleologia del pensiero ancor prima che quella della materia, di chi nella velocità e non nella fretta vede non un mezzo ma anche un fine, che sta in quell’impossibile che l’essere e non solo l’uomo deve fare: è finita l’era del fare il possibile, chi non se ne è accorto continui pure a morire o far la guerra in Santa pace. Qui sta il mio irrealizzabile posto che non c’è, quasi un imposto, l’isola fatta di mare che bagna l‘acqua che cade dal cielo perché inciampa… La spudoratezza dell’inconcepibile e o incommensurabile non ha confini di sorta, una sorta di impensabile che rende non arresi né resi a chi crede che esista solo quello che è esperibile o dimostrabile: questo per fortuna non dovrebbe aver mai a che fare con nessuna arte.
Studiando i tuoi lavori in questi anni, operazione che mi ha incanalato nella circolarità del tuo pensiero e nell’inscindibilità delle tue pratiche artistiche, colgo degli aspetti intimisti legati allo sciamanesimo e nomadismo di Joseph Beuys, la lotta contro gli “ismi” di Fabio Mauri, la memoria e la citazione connaturate al lavoro di Mimmo Paladino per transitare sulla Transavanguardia o sull’Arte Povera dal punto di vista dell’uso degli oggetti.
Vengo da vicino, come inizi della mia ricerca artistica, ma sono appunto spostato un po’ più lontano per quanto riguarda alcuni “amanti ” e certi evocatori che, come citi perfettamente, mi hanno dato da vedere il tanto. Mattia Moreni, Manai, Cuniberti, avendo anche la fortuna di conoscere molti dei loro “intorno”. Quasi contemporaneamente, attraversando certa antroposofia, via, verso le trascendenze e l’ulteriore della natura delle nature di Beuys.
Ho toccato, non solo con mano, gli inconsci e le purezze di Spalletti (quando andai in quello che non è uno studio, ma un evo della luce). E mi è successo poco prima, soprattutto con Paladino, di entrare e sprofondare a Paduli dove lavora, riuscendo anche a fare una parte nel suo film su Don Chisciotte, capendo il mito la metafisica e le terre che li abitano, fino al mistico dei corpi armati o disarmati che possano bruciare ancora e addosso. La mia esposizione a Cittadellarte del 2011 a Biella poi, mi ha permesso di scoprire la beltà “utile” delle utopie a venire, e del futuro terzo di Pistoletto che va’ a cercare gli altri. Di recente, altro privilegio per le intelligenze non solo umane, è stato trovare Fabio Mauri: le installazioni, il suo da leggere e da ascoltare, e quello che proietta attraverso.
Alessandro Bergonzoni, cosa ti fa paura?
Forse perdere le cose che non ho mai avuto, che bruci il mio studio e che si salvino solo i filistei, di chi ride dell’incredibile, degli ironici cronici, di chi nell’arte si crede arrivato sol perché partito, del poco che abita l’uomo, e viceversa, del corporativismo da bar e zone limitrofe, dei maschi senza la loro parte femminile, dei violenti per paura, dei paurosi per superbia, e delle interviste che finiscono…
Martina Cavallarin
Milano // fino al 30 gennaio 2013
Alessandro Bergonzoni – Tutto torna come dopo
a cura di Martina Cavallarin
FABBRI CONTEMPORARY ART
Via Stoppani 15c
02 91477463
[email protected]
www.fabbricontemporaryart.it
Berlino // fino all’8 febbraio 2013
Data On Imperfection. Alessandro Bergonzoni | Gianni Moretti | Maria Elisabetta Novello
a cura di Martina Cavallarin
FACTORY-ART GALLERY
Mommsenstraße 27
+49 (0)30 31809794
[email protected]
factory-art.com
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