Io? Sono proprio io, in questo momento, il centro del vostro mondo? Ma perché continuate a fissarmi così, intensamente? Quella giovane sembra guardarci incredula, sotto il suo cappellino rosso: stupita di dover sostenere tanti inopportuni sguardi, stupita che chi la osservi voglia conoscere i suoi impenetrabili segreti, i suoi stati d’animo, i suoi turbamenti. Stupita del fatto che chi si affacci nel suo mondo, racchiuso in quel piccolo dipinto arrivato dopo un lungo viaggio, da Washington, sia subito calamitato dal suo sguardo, che lei sembra voler distogliere, pudica: e dalla sua bocca socchiusa, prova del suo disorientamento.
Risposte, non ne avrà. Perché le risposte sono legate soltanto al suo creatore, Johannes Vermeer (Delft, 1632 – 1675): alla qualità della sua opera, ma soprattutto alla sua inomologabilità, che nel raffronto con tanti artisti olandesi a lui coevi trova l’ennesima conferma. Nella temperie ormai acquisita per la pittura del Secolo d’Oro dell’arte olandese – ruolo centrale della luce che si fa metafisica, promozione degli interni domestici e borghesi a “teatro della vita”, attenzione quasi simbolistica ai dettagli, realismo che trascura l’espressività per la visualità – Vermeer si pone un passo avanti: spingendosi – per citare Wilhelm Worringer – oltre “la superficie visibile delle cose”. Unico nel suo tempo, lui artista senza tempo, pare essere in anticipo di più di due secoli su Sigmund Freud, quando infonde nei suoi dipinti, nei suoi soggetti, nei suoi ritratti, qualcosa di non codificato, l’empatia. La terza dimensione, la coscienza della pittura. Gli altri artisti descrivono, lui suggestiona, lui evoca.
Riflessioni, stimolate dalla mostra romana delle Scuderie del Quirinale, che vive il suo ultimo weekend di apertura: evento da non farsi sfuggire, non fosse altro perché difficilmente ricapiterà nel corso della vita. Negli ultimi cento anni le grandi mostre dedicate nel mondo a Vermeer sono state otto, e di queste soltanto tre hanno ottenuto in prestito più di 4 capolavori dell’artista: e qui ce ne sono otto. Di articoli entusiastici però se ne sono letti tanti, in questi mesi: anche acriticamente, aprioristicamente entusiastici. E noi allora suoniamo – con grazia – fuori dal coro: il sottolineare il nome forte di Vermeer finisce per mettere in ombra quello che poi è il vero corpus della mostra, ovvero la straordinaria documentazione del “secolo d’oro dell’arte olandese”: le oltre cinquanta opere di grandi coevi di Vermeer, che testimoniano di un clima davvero unico che si veniva a creare nei Paesi Bassi del Seicento. Pensare che una piccola cittadina come Delft contava all’epoca 52 pittori professionisti, rende plasticamente l’idea della rivoluzione sociologica che si stava compiendo: da questione riservata ad una committenza sostanzialmente ecclesiastica e nobiliare, come era sempre stato, e come continuava ancora ad essere nell’area “mediterranea”, l’arte ampliava i suoi orizzonti, entrando nelle case borghesi. Non più grandi pale d’altare, non più monumentali ritratti, ma piccoli dipinti, adatti agli interni domestici (le opere in mostra a Roma raramente superano il metro di misura). Ma soprattutto, una rivoluzione tematica: l’arte finora doveva tenere in conto una “correttezza” dottrinale, quando aveva a che fare con una committenza religiosa, una “correttezza” diplomatica, nel caso di committenza nobiliare. Da questi schemi esulavano rari cosi di “irregolari”: si pensi al Piero della Francesca della Flagellazione, con la macchina scenografica che mette il Cristo sullo sfondo, o al Giovanni Bellini dell’Allegoria Sacra, che toglie alla Vergine la centralità, relegando il trono sulla sinistra del riguardante, o alla libertà assoluta di un Piero di Cosimo.
Nell’Olanda protestante, che si andava liberando dalla dominazione spagnola, la pittura si affranca da prescrizioni, adeguandosi alle esigenze del pubblico nuovo. “Valori civili”, li definiva efficacemente un’altra mostra tenutasi nella Capitale, a cavallo fra 2008 e 2009, al Museo della Fondazione Roma; pittura di genere, la definisce – non troppo felicemente, comunque semplicisticamente – la storiografia. Il protagonista scende nella scala sociale: ora al centro ci sono la damigella, il militare, l’oste, il musicante, la serva, personaggi comuni, non più magnificati, angelicati, esaltati dalla lettura dell’artista. Il rapporto è paritario, intimo, confidenziale, l’ambiente è conosciuto, frequentato: l’osteria, il salottino, il cortile. Novità ampiamente presenti nelle straordinarie opere esposte alle Scuderie: e pienamente metabolizzate da grandi artisti come Gabriel Metsu, Pieter De Hooch, Gerard Ter Boch, Gerard Dou.
Non da Vermeer, che le sublima prima ancora di assimilarle: e l’errore – anche di questa mostra – è quello di associarlo ad un gruppo, pur come primus inter pares. Lui in realtà sta già impartendo lezioni a Balthus…
Massimo Mattioli
Roma // fino al 20 gennaio 2013
Vermeer. Il secolo d’oro dell’arte olandese
A cura di Arthur K. Wheelock, Walter Liedtke, Sandrina Bandera
Catalogo Skira
Scuderie del Quirinale
Via XXIV Maggio 16
www.scuderiequirinale.it
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