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“Non chiedetemi perché”, sembra affermare l’intervento espositivo di Giuseppe Gabellone (Brindisi, 1973; vive a Parigi), pensato e realizzato nell’ultimo anno appositamente per lo Spazio Zero del museo bergamasco. L’invito rivolto alla fruizione di una mostra a mente sgombra da pre-giudizi è di prepararsi a un’esperienza percettiva e sensoriale più che cognitiva, anche se, ovviamente, in seconda battuta la ragione viene chiamata a riflettere e a cercare un perché.
L’installazione è un’esplosione di colori dalle pareti al pavimento: Grande viola (2012) e Verde acido (2012) accolgono lo spettatore e lo accompagnano nel percorso espositivo, avvolgendolo in ampi panneggi di tessuto vellutato e imbottito. Al muro dominano tre altorilievi dai colori terrosi: dall’ocra al nero fumo alla terra di Siena bruciata. Sono calchi in resina colorata effettuati su assemblaggi di vari materiali; si riconoscono il legno, la plastilina, oggetti d’uso comune come lampade e piccole sculture a forma di lumaca o di foglia. Inglobato nel corpo delle singole opere, si srotola un nastro di materia plastica che va comporre parole distorte come grandi captcha da interpretare. Testi e titoli coincidono: Proteggi Giuseppe, Mister Mother, Irò irò irò, tutti del 2012. Chiudono il percorso espositivo due piccoli bassorilievi senza titolo, anch’essi calchi di sculture-matrice, ma stavolta sono fusioni di alluminio e bronzo.
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Giuseppe Gabellone, Mister Mother, 2012 – photo Roberto Marossi – courtesy greengrassi, London & ZERO…, Milano – courtesy GAMeC, Bergamo
Lo spazio avvolgente realizzato dall’artista all’interno della project room ha qualcosa di materno, soffice e comodo, così come gli altorilievi realizzati in resina che, se da un lato restituiscono bene le differenze epidermiche dei singoli materiali, rendono anche il tutto più morbido e caldo a livello tattile. L’atto della presa di distanza che la realizzazione del calco di una scultura consente, comporta un allontanamento dalla realtà rispetto all’assemblaggio reale, che invece viene distrutto. È un successivo passaggio-filtro nella realizzazione del lavoro che, se in prima battuta “raffredda” i materiali originari, in seguito esalta l’oggettualizzazione dell’opera finita, come monoblocco materico, come totem di significati.
Il tutto è messo in atto in uno spazio in cui persino il rumore dei passi risulta ovattato, per avvicinarsi quanto più possibile a un’esperienza percettiva più che cognitiva, in cui i sensi siano stimolati più della ragione, in cui godere di un attimo pieno, di un tempo sospeso, reso con una valenza fortemente estetica.
Giovanna Procaccini
Bergamo // fino al 5 maggio 2013
Giuseppe Gabellone
a cura di Alessandro Rabottini
GAMEC
Via San Tomaso 53
035 270272
[email protected]
www.gamec.it
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