Risulta da un’intervista, resa dall’artista ormai all’apice della sua carriera, che all’età di nove anni, interrogata da una bibliotecaria su ciò che avrebbe voluto fare nella vita, rispose sorprendendo per prima se stessa: “Voglio fare lo scultore, non voglio che il colore mi aiuti”. In retrospettiva, oltre a fornire una chiave di lettura profetica della linea espressiva che sarà la sua più tipica, la dichiarazione di Louise Nevelson (Pereyaslav-Kiev, 1899 – New York, 1988) tradisce il ruolo fondamentale dell’infanzia nel comprendere l’opera generale di questa straordinaria artista. A partire dai materiali impiegati, considerato che il padre – nella nativa Russia, abbandonata insieme alla famiglia nei primissimi anni del Novecento per emigrare negli Stati Uniti – commerciava legname e che gli assemblaggi della Nevelson proprio agli scarti di questo materiale comune tipicamente ricorrono. Poi c’è l’aspetto della monocromia, dal nero distintivo dell’artista fino al bianco e quindi l’oro dell’ultimo periodo, che a ben vedere potrebbe risalire ai fondi ieratici delle icone russe ammirate nella prima infanzia.
Di fatto, l’uso di un solo colore per coprire assemblaggi sempre più imponenti e complessi esclude ogni superficialità della visione – il tempo e il luogo dell’opera, non si dimentichi, sono gli Anni Sessanta del Novecento e la New York in cui imperversavano Wahrol & Co. – per attribuire una fissità iconica alle composizioni che pretende contemplazione e apre la percezione a una dimensione sacrale, indipendentemente dalla loro oggettualità più immediata: esemplare il caso di un badile, dipinto di nero e inserito in uno degli assemblaggi in mostra, che è quanto di più lontano si possa pensare dalle sue più usate applicazioni dada o pop.
Infine, sempre a proposito d’infanzia, c’è la vertiginosa dimensione di gioco che è propria della ricerca della Nevelson (e, viene da pensare, della stessa immagine personale volutamente eccessiva, fino a divenire quella Lady Lou più nota al grande pubblico per le ciglia finte e i sigari che per le opere), il suo comporre e ricomporre pezzi di legno e oggetti abbandonati – ma lo stesso può dirsi delle forme grafiche nelle sperimentazioni condotte presso l’Atelier 17 di Stanley Hayter – con la felice inventiva di una percezione riconquistata all’esperienza di una vita e allo studio delle amate avanguardie storiche fino a farsi di nuovo naturalezza.
La mostra in corso a Roma, composta di oltre settanta opere tra cui diverse di rilevanza assoluta rispetto all’intera produzione – vedi il monumentale Omaggio all’Universo, giustamente isolato in uno spazio apposito nel percorso espositivo – permette una doverosa quanto rara verifica dell’opera di un’artista fondamentale per la storia dell’arte del Novecento.
Luca Arnaudo
Roma // fino al 21 luglio 2013
Louise Nevelson
a cura di Bruno Corà
FONDAZIONE ROMA – PALAZZO SCIARRA
Via Minghetti 22
06 697645 599
www.fondazioneromamuseo.it
www.louisenevelsonroma.it
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