I matronei della Basilica di Santa Maria Maggiore sono tutto fuorché i cubi bianchi che O’Doherty descrive come “camere di estetica unica”. Il succedersi dei secoli ne ha eliminato i tratti asettici e li ha storicizzati, rendendoli simultaneamente contesto e contenuto. Gli oggetti che s’introducono devono quindi saper dialogare con lo spazio per intessere rapporti di coerenza e continuità. Così hanno fatto i curatori Stefano Raimondi, Massimo Minini e Mauro Zanchi, muovendo la navetta della trama espositiva nell’ordito storico del luogo antico.
Una mostra di textile quale è Trame, ben si colloca nella basilica mariana, luogo che ostende sulle pareti delle navate e le balaustre delle cantorie ricchi arazzi fiamminghi e fiorentini. L’intreccio di rimandi sa andare ancora più lontano, instaurandosi con la centenaria tradizione della manifattura laniera e, in generale, con l’industria tessile tanto radicate nel territorio bergamasco. La mostra vuole anche e soprattutto omaggiare Seth Siegelaub, critico e curatore recentemente scomparso che fu esperto collezionista di tessuti, presenti e passati, per mezzo dei quali cercò di comprendere socialmente e culturalmente i popoli. Secondo il suo approccio conoscitivo il decorativismo, la necessità e l’uso di tappeti, drappi e abiti non sarebbero altro che espressioni attraverso cui decodificare il sistema linguistico (e folkloristico) che li ha generati.
Prodotto manuale, ancor prima che artistico, la stoffa ricamata o cucita possiede sempre le stesse finalità: è un mezzo per abbellire, ricoprire, vestire o commemorare. Sia nella declinazione di “arte” che in quella di “mestiere”, gli oggetti sono qui esposti come documenti, scampoli e frammenti di una complessa storia tessile e artistica. Compresenza tra art e craft così simbiotica che è anche possibile confondere, volutamente o involontariamente, prodotto artigianale con prodotto artistico. Alle strisce bicrome di Daniel Buren si accosta un somigliante tessuto messicano, il tricolore di Jota Castro poggia su sete uzbeche, i velluti in cotone di Riccardo Beretta sono stesi come il ricamato tappeto sardo, la pelliccia sintetica di Sylvie Fleury e il testo bianco di Sabrina Mezzaqui dialogano con piccoli e preziosi damaschi. Le vicinanze delle opere esposte nel primo matroneo sono talmente ridotte da creare contrappuntistiche sovrapposizioni di pattern, cromie e texture. Una percezione di accumulo da bazar esotico stemperata dall’attraversamento del corridoio che conduce al secondo matroneo.
Qui, nel raccoglimento di una luce più rarefatta, tre sole opere campeggiano: l’astrazione e perpendicolarità, propri di un linguaggio cifrato, dei segni neri cuciti su raso bianco di Alberto Garutti e l’infinito blu della Bic nella miriade di tratteggi, la rappresentazione di uno sciame e il suo ronzio, tracciati da Jan Fabre sull’immenso telero di seta. In questo modo manifattura italiana e fiamminga iniziano e terminano il percorso, dagli arazzi del presbiterio fino alle logge chiuse dei piani alti con i due artisti rispettivamente di Galbiate e Anversa.
Barbara Morosini
Bergamo // fino al 26 ottobre 2013
Trame
a cura di Stefano Raimondi, Mauro Zanchi e Massimo Minini
BASILICA DI SANTA MARIA MAGGIORE
Piazza Vecchia
[email protected]
www.bacoartecontemporanea.it
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