Sei grandi acquerelli su seta traslucida riproducono sagome diafane ed evanescenti, fungendo da diaframma tra i capolavori della statuaria romana tardo imperiale e le imponenti macchine retrostanti dell’ex centrale elettrica. Sono le tracce delle opere di un’antichità perduta che fanno da sfondo alle splendide statue giunte invece fino a noi. Sulla ricerca di Patricia Cronin (Beverly, Massachusetts, 1963), incide in modo determinante, in chiave tematica, la figura di Harriet Hosmer (1830-1908), scultrice americana (a lei si deve il monumento funerario a Judith de Palezieux Falconnet, in Sant’Andrea delle Fratte a Roma), studiata per anni. L’artista ha ricostruito la serie di acquerelli in bianco e nero attraverso cui la Hosmer riproduceva le sculture a lei note, per poi accostarle a figure appena sbozzate che alludevano a quelle purtroppo perdute. In entrambi i casi l’intento principale è restituire una fisionomia, seppure approssimativa e impalpabile – al punto da apparire spettrale – a un passato dai contorni talvolta sfumati, quando non interamente dissolti. Si tratta, in qualche modo, di una classicità perduta ma anche ritrovata, attraverso la memoria, come suggerito dal titolo dei sei acquerelli (Ghost), in modo tale da evidenziare il carattere indistinto e ondivago del ricordo.
A ben guardare però, secondo un’impostazione diacronica, l’uso dell’acquarello si rifà implicitamente anche alla grande tradizione del Grand Tour, che a partire dal Cinquecento fino a gran parte dell’Ottocento ha portato moltissimi stranieri a riprodurre le antichità romane (basti pensare, a titolo esemplificativo, ai tanti acquarelli di Johann Wolfgang Goethe durante il suo viaggio in Italia). Il sentimento con cui la Cronin guarda alle perdute vestigia delle antica civiltà ricorda, molto da vicino, quello del pittore svizzero (naturalizzato inglese) Johann Heinrich Füssli (1741-1825) che guardava con nostalgia a quei frammenti come a parti di un insieme assoluto e perfetto non più ricomponibile. Nel caso della Cronin la continua e inafferrabile sensazione di dissolvenza fa sì che la sua opera rimanga forse più indecifrabile proprio perché eternamente evanescente. Eppure il desiderio di riprodurre, fermandolo, un passato grandioso, sulle cui radici si è costruita la nostra identità, si percepisce in entrambi i casi.
Si tratta di un’aspirazione che non può essere confinata nell’alveo degli interessi di un singolo artista o di una singola corrente perché appartiene a un lungo filone ininterrotto della storia dell’arte, un filone che dal nostro passato più remoto ha saputo riallacciarsi al presente, fino a intercettare anche le ricerche di artisti contemporanei, come nel caso della Cronin.
Giulia Andioni
Roma // fino al 20 novembre 2013
Patricia Cronin – Le Macchine, gli Dei e i Fantasmi
a cura di Ludovico Pratesi
CENTRALE MONTEMARTINI
Via Ostiense 106
06 0608
www.centralemontemartini.org
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati