Piero Manzoni artista totale
“Forma, colore, dimensioni, non hanno senso: vi è solo per l’artista il problema di conquistare la più integrale libertà: le barriere sono una sfida, le fisiche per lo scienziato come le mentali per l’artista”. Questo dichiarava Piero Manzoni nel 1961. L’anno scorso, nel 2013, ricorrevano i cinquant’anni dalla morte (e gli ottanta dalla nascita) di un artista che ha rivoluzionato l’arte. E a Milano è aperta una grande retrospettiva a lui dedicata. Insieme a due esperti manzoniani - Gaspare Luigi Marcone oggi, Flaminio Gualdoni domani - ripercorriamo una parabola mirabile.
In circa sette anni (1956-1963) ha concepito e realizzato tele materiche, linee su carta e infinite, fiato e merda d’artista, sculture nello spazio e sculture viventi, oltre alle uova quali sculture da mangiare, teatri per balletti di luce e gas, e poi gli Achromes prodotti costantemente (dal 1957 alla morte) prima come “semplici” monocromi bianchi, poi sempre più come “totalità dell’essere” con materiali eterodossi e sperimentali, e molto altro ancora, passando dall’opera totalizzante, quel Socle du monde (1961) semplice base capovolta che supporta e trasforma in opera d’arte tutta la Terra e tutti gli esseri viventi, ovvero tutta la natura e la cultura. Un’opera che è un “omaggio a Galileo”, come riporta l’iscrizione metallica, quel Galileo che ha osservato e studiato la realtà con nuove prospettive e metodologie, anche in nome della libertà di ricerca; periodo in cui Giorgio Strehler sta pensando al Galileo brechtiano per il Piccolo Teatro di Milano, in scena dal 1963. Qualcuno potrebbe “vivere” – o ha già “vissuto” – sul Socle du monde come su un monumentale lavoro di Land Art.
Numerosi i progetti non realizzati, sintesi di natura e artificio: animali meccanici nutriti da energia solare, installazioni dinamiche e sonore alimentate dal vento. Per la musica nel 1961 vi sono due “afonie”. In questi sette anni, lavori e progetti saranno accompagnati da numerosi testi teorici e manifesti, esponendo in circa ottanta mostre in spazi sparsi per l’Europa, con escursioni intercontinentali a Chicago e Taipei nel 1960. Sempre dal 1960 le prime collettive in luoghi istituzionali: Monochrome Malerei allo Städtisches Museum di Leverkusen o alla XII Triennale di Milano fino allo Stedelijk Museum di Amsterdam per l’Ekspositie Nul nel 1962. E poi almeno quattro “film” – brevissimi e ironici, per i cinegiornali – sui cicli più sperimentali: Linee, Corpi d’aria, Uova, Sculture viventi (1959-1961); fondatore e curatore di una rivista e di una galleria d’avanguardia, Azimuth e Azimut (1959-1960) con Enrico Castellani.
Piero Manzoni nasce aristocratico, conte di Chiosca e Poggiolo, a Soncino presso Cremona, il 13 luglio 1933; ma il suo è un sangue “misto” – come misto di ironia e rigore, di materialità e concettualità sarà il suo percorso – perché la famiglia materna appartiene alla ricca borghesia lombarda. E si potrebbe dire che forse sarà tutto “lombardo” il suo interesse per la “realtà”, per il sangue e la merda, per il pane e la carne dei corpi, guardando sempre verso qualcosa di più “assoluto”; artista viaggiatore dalla vocazione internazionale, morirà senza aver compiuto trent’anni, il 6 febbraio 1963, nel suo atelier milanese.
Dopo studi giuridici a Milano (1951-1954) e filosofici a Roma (1955), e qualche “esercizio pittorico” naturalista, dai ventitré anni si consacra totalmente all’arte. Esordi presto vicini all’alveo dell’estetica “nucleare” fondata da Enrico Baj e Sergio Dangelo tra Milano, Bruxelles e poi Albisola dall’inizio degli Anni Cinquanta, quando Lucio Fontana ha già bucato la tela e piegato il neon diventando il nume tutelare – diretto e indiretto – di tanti giovani artisti.
Dopo il battesimo espositivo alla 4A Fiera mercato. Mostra di arte contemporanea al Castello Sforzesco della natia Soncino (11-16 agosto 1956) sarà proprio Fontana ad “appadrinare” una delle numerose collettive milanesi, con un brevissimo testo nell’opuscolo Manzoni Sordini Verga della Galleria Pater (29 maggio 1957) per poi marcare una via di ricerca “transgenerazionale” con la tripersonale Fontana Baj Manzoni, presentata da Luciano Anceschi a Bergamo e Bologna nel 1958. Alla fine del 1957 l’elaborazione dei primi “quadri bianchi” in sintonia con alcune soluzioni materiche o monocromatiche, da Salvatore Scarpitta a Yves Klein, passando per Alberto Burri, con la lucida coscienza delle avanguardie storiche. Ma la sperimentazione ad ampio raggio manzoniana è, per esempio, anche in alcuni lavori, già dal 1958, con lettere alfabetiche (ABCD) ripetute in tre colonne parallele, salto concettuale – sull’origine prima del linguaggio verbale e visivo – che sarà formalizzato nelle 8 Tavole di accertamento (preparate tra il 1958-1960) edite nel 1962 da Vanni Scheiwiller con prefazione di Vincenzo Agnetti, uno degli artisti-critici tra i suoi interlocutori privilegiati. Infatti alla fine del 1959 è Agnetti a scrivere il testo per la mostra inaugurale della Galleria Azimut (4 dicembre 1959) ovvero la personale manzoniana delle Linee.
Con la “linea” – che Manzoni definirà come uno dei suoi contributi più importanti – Agnetti sostiene che “il tempo si è fatto visibile e contribuente anche nell’arte”, parlando dell’opera quale “atto di donazione”. Linee scure tracciate su lunghi rotoli di carta poi avvolti e chiusi in cilindri neri con un’etichetta che riporta lunghezza, data e firma. Nel 1960 vari esemplari di Linea di lunghezza infinita, semplice cilindro di legno dove è ancora l’iscrizione a informare della natura dell’opera. Ma le linee cartacee continueranno ancora nei mesi successivi: celebre la “titanica” impresa della Linea di m 7.200, realizzata in circa tre ore a Herning (Danimarca) il 4 luglio 1960. Dalle fotografie d’epoca emerge la dinamica – lo “svolgersi”, il “farsi” – dell’opera sulla carta che gira sulle rotative mentre Manzoni, fermo e serio, regge il flacone d’inchiostro. Un flusso creativo-vitale che è alla base della sua ricerca ormai sempre più autonoma e spiazzante, che lo porterà qualche mese dopo a “firmare” le persone come Sculture viventi (dal gennaio 1961) rilasciando anche il relativo “certificato di autenticità”. Lettere, numeri, linee, certificazioni che preannunciano le ricerche internazionali degli anni successivi tra Europa e Americhe, con appendici “performative”. Si pensi anche all’ultima mostra della Galleria Azimut (21 luglio 1960), la Consumazione dell’arte Dinamica del pubblico Divorare l’arte, quando Manzoni consacrerà e offrirà al pubblico uova sode da mangiare – altre “donazioni” – “firmate” con la sua impronta digitale. E dopo il pasto, la Merda d’artista (maggio 1961), croce e delizia tra le sue creazioni.
Seguendo Agnetti, se l’opera d’arte è un “atto di donazione”, tanto Manzoni ha donato alle generazioni future e tanto anch’egli ha preso dalle ricerche anteriori e coeve con intelligente cleptomania, avendo sempre chiara l’idea di “storia”, delle idee e delle forme, nutrendosi di filosofia “esistenzialista” – da Kierkegaard a Sartre – e di cinema “neorealista” – da Visconti a Lizzani – passando dalle Commedie di Ludovico Ariosto, il tutto annotato in un diario giovanile (1954-55) nel quale tra gli artisti sembra stimare solo Pablo Picasso. E se il riferimento a Marcel Duchamp è giusto e fondato – ma a volte citato in modo molto superficiale – guardare l’arte come “cosa mentale” è un atto che forse per Manzoni ha origini molto più lontane. Non a caso in uno scambio epistolare del 1960 con Juan-Eduardo Cirlot, l’intellettuale spagnolo scrive di un suo “spirito leonardesco” ribadito ancora in un testo critico dello stesso anno (J-E. Cirlot, ¿Un nuevo idealismo? Piero Manzoni y la nueva concepcíon artística, “Correo de las Artes”, n. 27, Barcelona). Tesi per altro ripetuta da Giovanni Anceschi nel recente documentario Piero Manzoni. Artista per la regia di Andrea Bettinetti (2013), record di ascolti su Sky Arte HD. Un lavoro “equilibrato” ricco di interviste ai protagonisti coevi e contemporanei – da Agostino Bonalumi a Damien Hirst – e filmati d’archivio, dove è possibile vedere tra il bianco e nero lo sguardo ambiguo, solitario, di Manzoni con le sue “invenzioni”, respirando una certa atmosfera di libertà. Una “libera dimensione”, come recita un suo famoso testo teorico.
Gaspare Luigi Marcone
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #18
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