Quando il museo fa l’autocritica. “Take It or Leave It” a Los Angeles
Hammer Museum, Los Angeles - fino al 18 maggio 2014. Due donne insieme, per curare una mostra che alla componente femminile riserva uno spazio preponderante. E che, lavorando soprattutto sulla scena degli Anni Ottanta, racconta la critica all’istituzione museale. Non riuscendoci totalmente, ed è forse inevitabile.
“E soprattutto… Evita di assumere l’attitudine sterile dello spettatore. Perché la vita non è uno spettacolo, un mare di miserie non è un proscenio, un uomo che urla non è un orso ballerino”. è una delle enormi scritte che ti accolgono appena entrato nella lobby dello Hammer Museum: una citazione da Aimé Césaire, scrittore e politico martinicano che fu definito “cantore della negritudine”. Un’altra recita: “YOU are here to get cultured. To get smarter, richer, younger, angrier, funnier, skinnier, hipper, hotter, wiser, weirder, cuter, and kinder”. Prendere o lasciare. Autrice dell’installazione è Barbara Kruger, che ha realizzato questo nuovo lavoro appositamente per la grande mostra Take It or Leave It: Institution, Image, Ideology.
Fondato nel 1990 dal petroliere e collezionista d’arte Armand Hammer – una storia che si ripete, a Los Angeles, come fu per il Getty e come sarà per l’inaugurando Broad Museum – e operativo come dipartimento della University of California, il museo si è ritagliato un ruolo sempre più influente nella scena artistica contemporanea losangelena. A metà giugno riaprirà i battenti inaugurando la seconda edizione di Made in L.A., biennale dedicata agli artisti emergenti di stanza nella megalopoli californiana.
Co-curata da Anne Ellegood (curatrice senior allo Hammer) e Johanna Burton (curatrice del dipartimento Education and Public Engagement presso il New Museum), Take It or Leave It raccoglie opere di 36 artisti americani emersi tra la fine degli Anni Settanta e gli anni Novanta, ma sembra soprattutto una mostra sugli Anni Ottanta. Quelli più pungenti: gli Eighties arrabbiati, indecenti, provocatori, scomodi e velenosamente critici. Segnati dallo spettro dell’AIDS e dal diffondersi dei movimenti antirazzisti e femministi, sono anni di ribellione e denuncia dei condizionamenti imposti dal sistema artistico e dai mezzi di comunicazione.
Si può finalmente avere una giusta distanza critica su quel periodo? Questa mostra ambiziosa prova a rispondere con un taglio curatoriale molto definito: selezionando artisti che uniscono alle pratiche di appropriazione – di immagini, stili, forme prese dai mezzi di comunicazione di massa e dalla storia dell’arte – una forte critica alle istituzioni che controllano la produzione e la fruizione dell’arte (il museo, la galleria, la collezione privata), sollevando brucianti questioni politiche e sociali.
Oltre ai vari Jimmie Durham, Mark Dion, Felix González-Torres, Mike Kelley e Paul McCarthy (degli ultimi due figura anche il video co-firmato Fresh Acconci, dove attori “hollywoodiani” rimettono in scena le prime performance di Vito Acconci), figurano molte artiste. C’è da dire, anzi, che le donne in questa mostra appaiano come le più agguerrite.
Una splendida, dissacrante Andrea Fraser accoglie i visitatori all’ingresso della galleria con il video Official Welcome, dove l’artista mette in scena la parodia di stralci di discorsi istituzionali, tenuti da figure tipiche del sistema artistico (il direttore di museo, il critico, l’artista). Ancora Fraser, in compagnia del collettivo di artiste V-Girls, fa il verso agli stereotipi della critica artistica nel divertente The Question of Manet’s “Olympia”: Posed and Skirted.
La questione razziale è affrontata da Adrian Piper in Cornered (1988), videoinstallazione-barricata dove l’artista afro-americana espone il suo certificato di nascita. Ancora dissacrazione e linguaggio provocatoriamente osceno nelle pitture di Sue Williams (The Art World Can Suck My Proverbial Dick, 1992), mentre Louise Lawler in Birdcalls (1972-81) denuncia l’eccessiva attenzione prestata dal sistema agli artisti maschi bianchi di contro al mancato riconoscimento del contributo portato da artiste donne e artisti di colore. Sempre in tema di femminismo, il feroce manifesto SCUM di Valerie Solanas è interamente riportato nell’installazione di Nayland Blake, Scum (1990).
Non a caso, si scopre leggendo lo statement delle curatrici, “la ragione curatoriale alla base del criterio di inclusione [degli artisti selezionati] trova le proprie radici nelle pratiche delle artiste femministe dei primi Anni Settanta, come Mary Kelly, Adrian Piper e Martha Rosler, le cui pratiche si sono sviluppate a partire dal concettualismo ma che hanno poi introdotto la soggettività, la psicoanalisi e la consapevolezza dell’impatto dei mass media nel loro lavoro”.
Buona operazione critica e curatoriale, dunque, anche se una nota critica va all’allestimento della mostra, in verità discutibile. Si rileva infatti un discreto affollamento di opere, troppo spesso manca il giusto respiro tra un lavoro e l’altro e, soprattutto dove si incontrano più lavori con una parte audio, la sovrapposizione disturba e deconcentra. Si percepisce forse un vago senso di noia, come se poi in fondo il museo, pure quando fa l’autocritica, non riesca a uscire da se stesso.
Fa eccezione il bel riallestimento della videoinstallazione Total Recall (1987) di Gretchen Bender: un teatro elettronico costituito da 3 schermi e 24 monitor sui quali si succedono, a ritmo vorticoso, spezzoni da tv, cinema e pubblicità, quadretti di vita familiare americana e aerei militari da combattimento, intervallati da brani di animazione grafica Eighties style. Il titolo del lavoro le fu ispirato da un articolo letto su Variety, dove si annunciava l’uscita dell’omonimo film basato sul romanzo di Philip Dick. Il film sarebbe uscito solo tre anni dopo.
Emanuela Termine
Los Angeles // fino al 18 maggio 2014
Take It or Leave It
a cura di Anne Ellegood e Johanna Burton
HAMMER MUSEUM
10899 Wilshire Blvd
+1 (0)310 4437000
[email protected]
http://hammer.ucla.edu/
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