Paolo Veronese torna a Verona
Tra le grandi mostre dell’estate, quella dedicata a Paolo Caliari a Verona si preannuncia come una delle più ambiziose, sia nelle prospettive d’incassi che nell’impostazione scientifica. Alla vigilia dell’inaugurazione alla Gran Guardia, abbiamo incontrato i due curatori del progetto, Bernard Aikema dell’Università degli Studi di Verona e Paola Marini, direttrice del Museo di Castelvecchio.
Paolo Veronese torna a Verona con una grande mostra monografica alla Gran Guardia, a 26 anni di distanza dalla rassegna curata da Sergio Marinelli a Castelvecchio, e a tre quarti di secolo da quella memorabile di Rodolfo Pallucchini a Venezia. Nella tradizione delle monografiche dedicate al Caliari, come s’inserisce questo progetto da voi curato? E quale vorrebbe essere il suo contributo più determinante?
Bernard Aikema: La mostra di Paolo Veronese fatta da Pallucchini nel 1939 è una cosa che oggi non si può più neanche pensare. A quell’epoca tutto era possibile! Si potevano ottenere opere che oggi, per motivi ben comprensibili, non vengono più concesse in prestito. Questo ovviamente crea un problema per noi: perché un artista come Paolo Veronese, oltre a essere presente in tanti musei del mondo, è anche legato soprattutto a tre grandi nuclei, pressoché inamovibili: Palazzo Ducale e la Chiesa di San Sebastiano a Venezia, oltre alla Villa Barbaro di Maser. Quindi abbiamo dovuto fare una scelta: certo più limitata, ma forse anche più approfondita. La mostra di Castelvecchio, invece, si concentrava su un singolo momento, che è appunto quello degli esordi qui a Verona. Una fase che avrà un ruolo molto importante anche nel nostro progetto, seppure rivista sotto molti aspetti. Ma ciò che più contraddistingue la nostra iniziativa è il fatto che vogliamo contrappesare questa sfilata di bellezze con degli approfondimenti sulle tematiche più nuove negli studi su Veronese. Perché Paolo Veronese è un po’ il pittore del paradosso: un artista che tutti conoscono ma che allo stesso tempo è così poco conosciuto! È un pittore che spesso è ricondotto al cliché del pittoresco e dello spensierato. Ma in realtà questo grande colorista del Cinquecento veneziano è anche uno dei maggiori innovatori di una pittura serissima e controriformista.
Paola Marini: Messe in conto le difficoltà sottolineate dal prof. Aikema, noi cercheremo comunque di instaurare un dialogo con la grande mostra del ’39. E anche di superarla, in particolare nello studio sul disegno. Esempio in tal senso sono stati i due grandi studiosi a cui dedichiamo la mostra: Terisio Pignatti, autore della fondamentale monografia sull’artista, e Roger Rearick, che nel suo progetto di Washington (1988) fu capace di intessere un rapporto molto stretto tra pitture e disegni. Un rapporto che noi abbiamo cercato di rendere visivamente nell’allestimento curato da Alba Di Lieto e Nicola Brunelli. Il visitatore potrà confrontare direttamente i grandi dipinti e i disegni relativi, trovandosi di fronte a una sorta di tavolo di lavoro, un cruscotto, con i testi a portata di mano e una miriade di splendidi scorci tutto attorno. Ma la mostra vorrà anche presentare Paolo nelle sue forme monumentali. Ed è giusto dire che, rispetto alle mostre del Palais du Luxembourg e del Museo Correr del 2005, siamo riusciti ad avere anche opere di grandi dimensioni, che danno un’idea più chiara ed estesa delle pratiche pittoriche del Veronese, e che ben trovano accoglienza negli ampi spazi espositivi della Gran Guardia.
La mostra si avvale di una notevole lista di prestatori (cinquanta in tutto: dagli Uffizi al Louvre, dalle Gallerie dell’Accademia di Venezia al Staatliche Museen di Berlino) e nasce da una determinante sinergia con la National Gallery di Londra, dove si è conclusa da poche settimane la rassegna Veronese: Magnificence in Renaissance Venice. Come si è sviluppata questa collaborazione?
P. M.: Le cose erano nell’aria da un po’ di tempo: abbiamo saputo che anche la National Gallery lavorava a un progetto simile, e devo dire ha funzionato l’antica amicizia che ci lega con Nicholas Penny, e anche il suo spirito di storico dell’arte italianisant, attento a ricollegare gli artisti ai territori dove hanno lavorato. Quindi ci siamo messi a tavolino circa tre anni fa, ognuno con i propri elenchi di opere, e abbiamo cercato di capire dove potevamo esserci d’aiuto a vicenda.
B. A.: Ed è una cosa non da poco! Perché nel mondo delle mostre, dei musei e delle istituzioni culturali c’è più facilmente concorrenza e rivalità. Io stesso venivo da un’esperienza molto simile e molto meno felice. E che le cose siano andate così, noi siamo davvero riconoscenti ai nostri colleghi inglesi, che ci hanno concesso dei prestiti quasi inverosimili. Si veda ad esempio l’immagine scelta come copertina della mostra, questo dipinto allegorico che è uno dei grandi capolavori di Paolo Veronese nella prima maturità, e che è uno dei quattro soffitti allegorici ormai da oltre un secolo alla National Gallery, mai concessi in prestito tutti assieme, almeno finora: noi ne siamo i primi beneficiari!
E tra gli altri prestatori, c’è qualche opera di cui andate particolarmente fieri?
P. M. e B. A.: A questo proposito possiamo dire che siamo riusciti a riportare a Verona un’opera fatta per un convento veronese! Anzi, la prima “Cena” in assoluto di Paolo Veronese, realizzata per il Convento Benedettino di San Nazaro e Celso, e che a partire dalla metà del Seicento è sempre stata tra Genova e Torino. All’inizio non sembrava possibile, ma con grande perseveranza siamo riusciti ad avere quest’opera a Verona, e siamo sicuri che sarà una grande rivelazione. Invece, per quanto riguarda le altre opere già qui in città, abbiamo fatto questo ragionamento: le grandi pale delle chiese di San Giorgio e San Paolo possono restare al loro posto, e anzi vorremmo dare un incoraggiamento ai visitatori a esplorare la città, dopo che saranno usciti dalla mostra.
Passando al percorso espositivo, si può restare sorpresi (se non quasi interdetti…) di fronte a un ordinamento che all’inizio può apparire di tipo cronologico (Giovinezza), ma che presto diviene spiccatamente tematico (Il rapporto con l’architettura, Mito e allegorie, Religiosità…). In base a quali criteri avete organizzato le opere esposte, e che tipo di relazione vorreste stabilire con il visitatore?
B. A.: Qual è la griglia di riferimento? Cronologica o tematica? Io direi un po’ tutte e due: una formula che – se gestita bene – può essere estremamente efficace. Perché è chiaro che ogni pittore ha il suo percorso cronologico, che dev’essere rispettato con attenzione. Ma va anche detto che Paolo Veronese è un pittore con una cronologia estremamente complicata, con dispute su datazioni che variano di 20 o 25 anni! Inoltre Veronese si è esercitato su un ampio ventaglio di tematiche, ma anche con certe concentrazioni durante la sua carriera. Quindi possiamo agevolmente incrociare le due griglie: ad esempio l’architettura è una tematica che pervade un po’ tutte le sue opere, ma i più magnifici esempi sono degli anni ’50 e ’60, a cavallo dell’intervento di Maser.
P. M.: Ovviamente in tutto questo c’è anche un problema estetico e visivo. La tavolozza del pittore cambia molto, dai colori acidi e contrastati degli inizi a quella maggiore fusione di toni più scuri dell’ultimo periodo: quindi un’eccessiva mescolanza avrebbe anche dato origine a delle dissonanze. Per esempio, nella sezione dedicata alla religiosità non abbiamo esposto dei dipinti giovanili: ma questo non vuol dire che il tema non fosse stato affrontato in quel periodo. Ed è anche vero che la sezione dedicata alla religiosità rivela una sensibilità che si accende soprattutto intorno alla conclusione del Concilio di Trento. Ma poi direi che queste scelte sono anche finalizzate a stimolare ancora meglio il coinvolgimento emotivo del visitatore, con temi che si rinnovano di sala in sala, e che comunicano (almeno ci speriamo…) tutta la solarità della sua pittura.
È evidente, già solo scorrendo la lista delle opere selezionate, quanto il progetto si distanzi da semplici intenti celebrativi. La grande rilevanza data ai disegni e al lavoro della bottega permetterà certo di focalizzare molti lati inediti (o poco conosciuti) del lavoro del grande pittore. Ma non sarà forse una visione “troppo originale”? In quale modo avete scelto di equilibrare gli affondi critici con una visione d’insieme?
P. M.: I disegni volevamo che fossero un po’ come la spina dorsale della mostra, perché è lì che inizia l’elaborazione dell’opera (idea un po’ vasariana, si dirà…) ed è lì che si negozia con l’acquirente (e in mostra ci saranno anche dei disegni fatti apposta per il mercato). Il disegno organizza poi il lavoro della bottega, offrendo degli strumenti e dei modelli. In alcuni casi poi, come per i grandi dipinti di Palazzo Ducale o per gli affreschi della Villa Barbaro, i disegni ci aiutano a convocare in mostra le opere intrasportabili. Quindi una visione d’insieme vogliamo certo darla! E l’idea è quella di una esposizione monografica attrezzata culturalmente, attenta ai dibattiti più recenti, e che aiuti il visitatore ad approcciarsi a queste nuove tematiche. Io non credo affatto che se una mostra è scientificamente ferrata e ha delle novità debba divenire un ostacolo alla bellezza! Così come non penso che per emozionarsi sia necessario buttare dalla finestra il manuale di storia dell’arte.
B. A.: Il mio credo (e direi anche quello di Paola) è che oggi di mostre se ne fanno tante – e magari anche troppe! Ed è una nostra responsabilità, in quanto gestori culturali, scegliere di farle oppure no. Perché sappiamo bene che questa scelta comporta anche dei rischi. Ma tra la mostra fatta puramente per il botteghino (e qui a Verona ne abbiamo avuti diversi esempi…) e quella fatta per la semplice soddisfazione del curatore (dove vengono, quando va bene, una dozzina di visitatori…), noi abbiamo cercato di trovare il giusto mezzo. Niente di astruso, insomma: le novità ci saranno, e chi vorrà capirle sarà ben invitato a farlo!
Restando sempre in questo ambito “d’innovazione”, c’è poi l’importante restauro della Cena in casa di Levi degli Haeredes Pauli: una tela che non è opera del Veronese, ma prodotto postumo della sua bottega. Sia sul piano delle caratteristiche tecniche che su quello degli apporti critici, quanto è stato determinante questo restauro per il vostro progetto?
P. M.: Innanzitutto questa Cena è un’opera che, pur essendo proprietà delle Gallerie dell’Accademia di Venezia, è depositata a Verona dai primi del ‘900 e aveva davvero bisogno di un intervento di restauro. Quindi, grazie al surplus di energia che una mostra del genere è in grado di suscitare, siamo riusciti a trovare le risorse necessarie. Ma questo restauro ha anche altre funzioni: la formula del “cantiere aperto” ci ha permesso in primo luogo di sensibilizzare quella parte del pubblico (gruppi, associazioni e scuole) che, visto il periodo in cui avverrà la mostra, forse sarà più svantaggiata. E devo dire che, delle cento visite guidate realizzate al cantiere di restauro, quasi tutti i gruppi si sono già prenotati per la mostra! In secondo luogo, non si può scordare che le Cene sono uno dei segni distintivi del Veronese: e non avremmo mai potuto chiedere alle Gallerie dell’Accademia di Venezia o al Louvre il prestito di opere intrasportabili! Quindi, sebbene lavoro in gran parte di bottega, questo dipinto porta in mostra anche la dimensione più monumentale del pittore.
B. A.: Ma questo restauro ci mette anche nella condizione di vedere delle differenze formali, stilistiche e qualitative all’interno della tela stessa, e di toccare con mano i momenti di passaggio tra lo shock della morte del capo-bottega e le rielaborazioni successive. Probabilmente il dipinto fu iniziato dalla parte destra, con il Veronese ancora in vita (e in effetti questa parte è molto vicina all’ultima grande pala di Paolo, Il Miracolo di San Pantalon, che avremo in mostra con il suo immancabile disegno…). Quindi vedere che quella parte della Cena ha un’impalcatura e un tocco pittorico come quelli dell’ultimo Paolo, ci fa capire che probabilmente lui la sorvegliò da vicino, e forse addirittura la toccò con mano. Mentre invece la parte centrale e quella sinistra sono molto diverse: e qui scatta una serie di domande che può essere interessante per qualsiasi tipo di pubblico. Anche perché noi non possiamo più continuare a guardare alla pittura del Rinascimento con gli occhi del Romanticismo: l’idea del sublime genio che si ritira su una montagna e porta a termine da solo il suo capolavoro è davvero insostenibile! Specie per opere di questo tipo, nelle quali erano in azione delle vere officine.
La mostra è accompagnata da un ampio apparato, che va dalla serie di conferenze “di avvicinamento” realizzate a Verona tra febbraio e maggio al ricco catalogo edito da Electa. Che tipo di contributi avete selezionato e quale riscontro hanno avuto presso la cittadinanza?
P. M.: Oltre alle conferenze e alle visite al cantiere, oltre a un grande convegno che si svolgerà a settembre, c’è stata una serie di incontri nelle biblioteche delle varie circoscrizioni, e quaranta giovani hanno lavorato come “ambasciatori” per diffondere la notizia della mostra sul territorio. Insomma, è stato fatto un lavoro abbastanza capillare, a cui le persone hanno risposto in maniera superiore alle aspettative. Gli incontri alla Gran Guardia sono stati quasi sempre un tutto esaurito. E non sono state certo delle conferenze di divulgazione spicciola!
B. A.: Il programma delle conferenze è stato sempre finalizzato alla traduzione di un sapere specialistico per un pubblico più ampio. E per questo abbiamo invitato grandi nomi della storia dell’arte come Howard Burns e Augusto Gentili, ma anche più giovani studiosi come Claudia Terribile e Giorgio Tagliaferro, che hanno presentato con grande serietà e limpidezza delle nuove idee su settori importantissimi della ricerca. Ma anche il grande Convegno Internazionale che verrà organizzato dall’Università (frutto di un lavoro corale), sarà arricchito da una sessione pensata appositamente per i giovani, secondo la formula americana della poster session – e i migliori contributi avranno anche una pubblicazione all’interno degli atti. La mostra ci ha poi dato l’opportunità di ottenere una borsa di studio con fondi europei per il dottorato di Thomas Dalla Costa, che è stato il nostro principale assistente e collaboratore, insieme a Ilaria Turri per la parte organizzativa. Una grande opportunità per lui, e un sostegno determinante per noi! Il catalogo, infine, è ovviamente un catalogo scientifico (con 33 autori e la bibliografia più aggiornata sull’argomento), però abbiamo anche cercato di far sì che i testi non risultassero troppo lunghi o arcani. Un volume ricco, scientificamente sostenuto, ma anche consultabile in maniera agevole.
La mostra della Gran Guardia sarà poi il nodo centrale di una rete estesa a tutto il territorio veneto, con un’ampia serie di itinerari e quattro ulteriori progetti espositivi. Lo si potrebbe considerare un passo nella direzione del cosiddetto “museo diffuso”?
P. M.: Quella del “museo diffuso” è piuttosto una formula, di cui spesso ci si riempie la bocca. Quindi noi abbiamo un po’ di pudore a parlarne, anche se in realtà proprio questo è successo! E diciamo che tutto ciò è stato possibile principalmente per due motivi: i tempi lunghi di preparazione (cinque anni di lavoro lento e attento) e la scelta di un pittore che rappresenta molto per questa città. L’idea del museo diffuso è stata molto apprezzata in particolare dalla Regione, per la quale si è ripreso un modo di lavorare già sperimentato in precedenza, ma poi un po’ tralasciato negli ultimi anni. E questa sequela di eventi, questa concorde emulazione in tutto il Veneto ci fa molto ben sperare per il successo della mostra: a Vicenza verranno proposte due opere ritrovate a Verbania – Pallanza; e poi a settembre si uniranno Padova, Castelfranco Veneto e Bassano del Grappa con altrettanti progetti espositivi. E contemporaneamente ci sarà l’itinerario attraverso 32 luoghi nel Veneto: perché abbiamo avuto dei prestiti importantissimi, è vero, ma non potevamo certo svuotare tutte le chiese e le gallerie di Venezia! Per noi la visita parte idealmente da Londra, passa attraverso Verona e si diffonde poi in un viaggio attraverso tutto il Veneto.
Simone Rebora
Verona // fino al 5 ottobre 2014
Paolo Veronese – L’illusione della realtà
a cura di Paola Marini e Bernard Aikema
Catalogo Electa
PALAZZO DELLA GRAN GUARDIA
Piazza Bra
848 002008
www.mostraveronese.it
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