Masbedo. Da Venezia a Verona, via Torino
Prima, con “The Lack”, il debutto alla Settimana degli Autori della Mostra del Cinema di Venezia, a partire dal 3 ottobre il grande show alla Fondazione Merz. E nel 2015 le scenografie per il Flauto Magico all’Arena di Verona. Cinema, videoarte, teatro: gli anarchici Masbedo ci raccontano di un periodo di febbrile attività. E della difficoltà di lasciarsi ingabbiare dal sistema dell’arte.
A Venezia c’eravate già stati: sia nel 2009, nel Padiglione Italia di Beatrice e Buscaroli, sia due anni più tardi, questa volta alla Mostra del Cinema di Venezia. Ora il ritorno con The Lack alla Settimana degli Autori. Come è andata?
L’approccio è stato positivo, nel senso che siamo andati lì a intaccare regole che sono cristallizzate: tutti hanno questo grande interesse a proporre una videoarte che si avvicina al cinema, ma vedi poi che le due nicchie, quella del cinema e quella dell’arte contemporanea, non è che si parlino così tanto.
E allora cosa succede?
Nicolò Massazza: Succede che a essere ricettivo e a essere felice di quello che ha visto è un pubblico più sperimentale, uno spettatore abituato a essere un po’ più aperto: parliamo di chi magari va a vedere indifferentemente uno spettacolo della Socìetas Raffaello Sanzio come una mostra d’arte contemporanea. È uno spettatore che non giudica, che non ha sovrastrutture, che non viene da una nicchia sola; perciò è uno spettatore che è affamato dell’urgenza dell’arte visiva, che deve essere oggi assolutamente aperta. Perché se l’arte visiva, altrimenti, è solo esporre un plasma in uno stand di una galleria a una fiera, allora ti riduci a fare il conservatore in una logica conservatrice.
Iacopo Bedogni: Si tratta di delegare una grossa responsabilità a questo nuovo tipo di spettatore, che forse è l’unico che può creare dei ponti, generare rivoluzioni nella modalità di produzione, rappresentazione e distribuzione di tutte le tre nicchie nelle quali lavoriamo. Cioè l’arte contemporanea, il cinema e ovviamente anche il teatro.
Affrontare più linguaggi cosa comporta in termini di riconoscibilità del “marchio” Masbedo? Più svantaggi, legati magari a una difficoltà di mantenere chiara per il pubblico la propria identità, o più benefici, dati dall’ampliare il range degli interlocutori?
J. B.: Può consolidare il “marchio” ma a livello se vogliamo quasi glamour, come conoscenza superficiale da parte di persone che transitano per questi sistemi. Per cui, a forza di sentire che due videoartisti si misurano con più campi, uscendo in tante modalità, si crea una sorta di allure: diciamo che “se ne parla”.
N. M.: Si può dire che questa pratica aumenti la nostra fama: perché, dobbiamo dirlo, facciamo pubblico. Ma aumentando la popolarità disorienti, per assurdo, la nicchia: i critici, i curatori, le gallerie non capiscono, vedono questa scelta quasi come una salto nel buio. Ricordo anni fa i commenti sul film primo film di Shirin Neshat da parte di persone che lavorano nel mondo dell’arte contemporanea. Dicevano: “Eh, ma lei è andata già sul cinema”, come se non fosse una cosa in più, anzi!
I. B.: Questo, tornando alle nicchie di competenza, è ancora un grosso nodo da sciogliere. Non si capisce perché l’essere poliedrico, il volersi misurare con più linguaggi, non viene considerato per un artista come un valore aggiunto, come un plus. A Venezia abbiamo passato del tempo con Michel Houllebecq, che è venuto in Laguna come attore; e come attore ha finito lì: a gennaio uscirà infatti il suo prossimo libro. Per cui continua nel suo territorio di appartenenza, ma non per questo evita di misurarsi con altre cose.
Dal punto di vista del rapporto con il mercato, nella tradizionale dialettica tra artista e collezionista, cosa accade invece?
N. M.: Un nostro collezionista, che non ha affatto torto, ci dice che è importante che i Masbedo vengano riconosciuti come videoartisti perché il brand che hai in mente quando ti riferisci a noi è quello della videoarte. Per cui, quando allarghi il raggio d’azione, quando scendi in altri campi, rischi di non essere più scelto come prodotto perché per il mercato non sei più quel prodotto lì. Non ti riconoscono più.
Negli ultimi anni siete passati dai video in forma se vogliamo più tradizionale ai video come ingranaggio di azioni live. La parte performativa, con il passaggio al cinema, di fatto scompare: perché questo nuovo cambiamento linguistico?
I. B.: Non credo che ci sia da parte nostra una strategia, anzi. È una logica evoluzione data da una nostra naturale inquietudine, che ci porta a misurarci e a rischiare continuamente.
N. M.: Nella mostra che stiamo preparando per la Fondazione Merz sarà esposto anche il nostro primo lavoro, 11.22.03: si tratta di un’opera del 2002 ed è pazzesco perché sembra fatta ieri. C’è dentro la musica classica, quella dei Bluvertigo, Ramon Tarès della Fura dels Baus: ci siamo noi, ci siamo già dentro tutti noi. Quel lavoro lì è Masbedo… oggi. E non lo dico perché nel frattempo non siamo cresciuti, anzi, ma che da subito noi sentivamo l’urgenza dell’impollinazione tra generi diversi. Per cui, se ci pensi, fin da subito c’è stato “del cinema” nel nostro lavoro.
E così arriviamo a Torino: cosa dobbiamo aspettarci dalla mostra che state allestendo alla Fondazione Merz?
N. M.: Ci saranno tutti i nostri lavori più importanti, dal 2002 fino ad oggi; ci sarà una performance, ci siamo permessi di creare un’opera collettiva invitando altri tredici videoartisti a lavorare con noi. Faremo un omaggio alla Lumaca di Mario Merz, creando una spirale con gli interventi di Jan Fabre, Marzia Migliora, Catherine Sullivan, Nicolas Provost, Sigalit Landau, Shaun Gladwell, Damir Ocko, Emmanuelle Antille, Rä Di Martino, Gianluca e Massimiliano De Serio.
I. B.: Diciamo che abbiamo avuto il piacere di avere uno spaccato importante della videoarte a livello internazionale, e che siamo riusciti a dare allo stesso tempo una fotografia di uno spaccato generazionale. La Lumaca è del 1970 e tutti gli artisti coinvolti, tolto Fabre che fa un po’ da papà per tutti noi, sono nati intorno a quegli anni: per cui è bello fare una riflessione, quasi quarantacinque anni dopo, su come si è evoluto un linguaggio e su quanto sia forte oggi la forza persuasiva dell’immagine. Quasi arrivando a una rivalutazione del cinema muto e di quello delle prime avanguardie.
N.M.: E troviamo sia un bel gesto, in una mostra che parla dell’incomunicabilità sociale, relazionale, generazionale, radunare artisti diversi e chiamarli a lavorare in ricordo di un altro artista, che pure non è ricordato in modo particolare per il suo apporto alla videoarte.
In occasione dell’opening della mostra è prevista una performance. Ci anticipate qualcosa?
N. M.: Questa volta faremo una cosa un po’ violenta, a livello solo psicologico però, e coinvolgeremo il pubblico. Perciò non sarà un lavoro più teatrale, come in passato, ma una performance nel senso più articolato del termine. Da questa azione produrremo un video, che sarà poi messo in mostra.
È la prima volta che scegliete di far partecipare il pubblico. Perché questa svolta?
N. M.: Perché sai che quando abbiamo un minimo di sicurezza dobbiamo fare un passo laterale, sperando che sia quell’insicurezza nella quale stiamo bene: Todestriebe [il titolo della mostra alla Fondazione Merz, n.d.r.] è questa cosa qui, l’istinto di morte, la pulsione di tutte le pulsioni, diceva Freud. Todestriebe è per noi una cifra stilistica, il non arrivare mai alla linea di sicurezza: nel momento in cui raggiungiamo quel punto, dobbiamo assolutamente allontanarcene, tornare a rischiare.
Dopo Torino toccherà a Verona: cosa ci dite del progetto per le scenografie digitali de Il flauto magico all’Arena?
N. M.: Prima di Verona c’è un altro lavoro che ci emoziona fare: siamo stati invitati da Jan Fabre a fare un’opera per lui, nel suo studio, cosa della quale siamo onorati.
I. B.: Quanto all’impegno con l’Arena, invece, tornando al discorso della linea di sicurezza che facevamo prima… beh, quello è un bel salto nell’unsafe!
N. M.: Sarà qualcosa di molto complesso: perché Il flauto magico è un’opera straconosciuta, perché la produzione è dell’Ente Lirico, perché il pubblico della lirica è molto esigente. È frequente che artisti si occupino di scenografie per la lirica, vedi Paolini o anche solo Kentridge – e proprio per Il flauto – ma ne nostro caso, con il video, è forse più complesso perché si tratta di armonizzare la regia, con i movimenti dei cantanti, a una scena di fatto virtuale. È una sfida incredibile, potevamo non accettarla?
Francesco Sala
Torino // fino all’11 gennaio 2014
Masbedo – Todestriebe
a cura di Olga Gambari
FONDAZIONE MERZ
Via Limone 24
011 19719437
[email protected]
http://www.fondazionemerz.org
http://www.masbedo.org
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