David Lynch e le fabbriche che scompaiono
Fondazione Mast, Bologna - fino al 31 dicembre 2014. Il regista dell’inquietudine espone 111 fotografie in cui immortala il mondo dell’industria pesante nel momento della sua decadenza. Con un occhio che pare realistico, ma che in verità sprofonda tra la melma e gli scarti. Perché solo lì si può trovare la malìa di “un altro mondo”.
Un bianco e nero abissale, sconfinato. “Non saprei cosa fare con il colore. È troppo limitante, vincola alla realtà”, scrive David Lynch (Missoula, 1946; vive a Los Angeles). Il regista americano ha bisogno dell’oscurità per lasciar spaziare la propria immaginazione. Ha bisogno di imboccare il buio di un tunnel, perché solo così “la nostra capacità percettiva si fa più acuta”. Ha bisogno di vedere ciò che accade dentro a questo tunnel, di scovare ciò che di misterioso, inquietante, proibito, vi abita. Sono poco più di un centinaio le foto in esposizione: scatti di fabbriche abbandonate, fatiscenti, dove la fuliggine, i vapori, le polveri sottili sembrano essersi insinuate come un morbo sconosciuto.
La sensazione è quella di trovarsi di fronte a un mondo che sta perdendo i pezzi, un paesaggio che si sta sfaldando. È come se tutte le dimensioni fisiche si stessero trasformando inesorabilmente in dimensioni metafisiche, come succede in Eraserhead (il primo lungometraggio di Lynch), una pellicola tutta fatta di recessi angusti, nascosti, sporchi, dimenticati. “Sono questi i luoghi che amo”, dice il regista. “i luoghi in cui si scoprono segreti”. Luoghi che, come reliquie, hanno le stigme del ricordo, ma che non si riconoscono più. Sono i monumenti decadenti dell’industrializzazione: profili di muri sbrecciati, ciminiere senza vita, vetri rotti. L’altra faccia dell’industria, quella che non si mette più in posa, con i suoi macchinari, ma che viene vista come “lascito del passato”, miniera del perduto.
A Lynch non interessa affrontare una questione sociale, raccontare la realtà del lavoro, quanto sorprendere le cose spogliate dei propri contrassegni funzionali, ridotte a scarti, rottami, cadaveri: pronte però a rivivere come presenze pure e come fantasmi. Anche qui, alla stessa maniera di Velluto Blu (che inizia con la scena di un orecchio mozzato brulicante di formiche), siamo portati a guardare un infinito agitarsi di presenze sinistre: tubature contorte, maniglie, ventilatori, catene di ferro, lettere oscure.
Certo non ci parlano di storie torbide, non curiosano in un mondo marginale: ma forse non c’è peggior marginalità, se non addirittura mostruosità, di quel che chiaramente e tranquillamente appare. Non c’è devianza peggiore di ciò che scompare sotto i nostri occhi. Significa mostrare un paese di ombre, far parlare il silenzio della storia. Come accade anche nei tre corti finali: tutti vapori, oscurità, esplosioni, pistoni che si muovono a vuoto, simili ad assurde “macchine celibi”.
Luigi Meneghelli
Bologna // fino al 31 dicembre 2014
David Lynch – The Factory Photographs
a cura di Petra Giloy-Hirtz
FONDAZIONE MAST
Via Speranza 42
[email protected]
www.mast.org
MORE INFO:
http://www.artribune.com/dettaglio/evento/38275/david-lynch-factory-photographs
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